«Oggi l’estremismo in Pakistan c’è ancora: ci sono molti interessi economici, politici e religiosi a sostenerlo. Ma la sensibilità alimentata da mio fratello contro ogni discriminazione e per la libertà religiosa ha cambiato le cose. Ed è cresciuta la disponibilità della maggioranza musulmana ad accettare i diritti delle minoranze religiose». È il risultato maggiore, l’eredità del grande lavoro e del sacrificio di Shahbaz Bhatti, il ministro per le minoranze religiose del Pakistan, cattolico, assassinato proprio sette anni fa, il 2 marzo 2011. Shahbaz è stato ricordato nei giorni scorsi a Venezia dal fratello Paul, che ne ha continuato l’opera, anch’egli come ministro, per poi tornare a vivere in Italia, a Badoere, dove fa il medico. Alla Scuola Grande di San Teodoro, invitato dalla diocesi di Venezia a portare la propria testimonianza, Paul Bhatti ricorda episodi dell’infanzia, vissuta in un villaggio pakistano, ma rievoca anche i giorni tragici di sette anni fa. E quelli – commoventi e sorprendenti – successivi. «Prima di quel 2 marzo – racconta Paul – mio fratello e io eravamo spesso in contatto: io in Italia e lui in Pakistan, ci sentivamo al telefono. Lui era consapevole del pericolo e io ero preoccupato perché le minacce per la sua vita erano aumentate. Un giorno gli dico: lascia tutto, che la vita è più importante. Lui, di tutta risposta, mi propone di tornare in Pakistan per dargli una mano nella sua opera. No, guarda – gli dico – tu mi stai chiamando da un paradiso-inferno. No, ribatte lui: è la porta del paradiso, che parte dal Pakistan».
«Ero arrabbiato con lui». Paul resta deluso per la testardaggine del fratello. Passa un mese: «Ero al telefono con un amico in Pakistan e questi, che aveva la televisione accesa, mi dice: “È successo qualcosa a tuo fratello”. Io metto giù, chiamo subito Shahbaz, ma niente; poi il suo autista, e niente. Infine trovo il mio fratello minore che mi dice: “Abbiamo perso Shahbaz”. Io ero disperato ma forse – ancora di più – molto arrabbiato. Arrabbiato con Shahbaz: non doveva succedere a lui, così giovane, che però non mi aveva ascoltato. Ero arrabbiato con me stesso, che non ero stato abbastanza forte da fargli cambiare idea; poi con il Governo del mio Paese, che non era stato in grado di proteggere un suo ministro così esposto…». Èd è per questo che Paul vola in Pakistan, per i funerali, con la determinazione di portare via tutta la sua famiglia: «Mia madre, i miei fratelli…: volevo che venissero subito via». Ma le cose non vanno così. Quando Paul arriva nel luogo dove sta per svolgersi il funerale, vede una scena commovente: «Un funerale mai così grande e con così tanta gente. E non solo cristiani o minoranze. C’erano politici, capi di stato, diplomatici, leader religiosi musulmani… E soprattutto gente che piangeva per lui, gente che credeva in lui. Il Pakistan ha listato a lutto la bandiera per tre giorni, il presidente della Repubblica ha detto che Shahbaz era il volto del Pakistan. Uccidere Shahbaz era uccidere il volto del Pakistan. E voleva che la sua missione continuasse, proponendo a me di riprendere da dove mio fratello era stato costretto a interrompere». È così che Paul Bhatti, anziché riprendere l’aereo portando via la famiglia, si ferma in Pakistan, dove lavorerà alcuni anni come ministro. Poi, anch’egli minacciato da vicino dagli estremisti, lascia. Ma oggi continua a portare nel mondo la testimonianza di Shahbaz, cristiano che ha combattuto per la libertà di tutti, soprattutto dei più deboli: «Un giorno – conclude Paul Bhatti – sono stato ricevuto in Vaticano da Papa Benedetto, che mi ha detto: “Tuo fratello è un santo. Noi siamo con lui”».
Giorgio Malavasi