Erano trentotto i pellegrini che, dal 23 al 30 novembre, accompagnati da don Giorgio Scatto, priore della comunità monastica di Marango, si sono recati in Terra Santa. «Si va in pellegrinaggio per scoprire la terra dei patriarchi e dei profeti», spiega don Scatto che aggiunge: «Si va per conoscere i luoghi dove Gesù è vissuto, dove ha posato il suo sguardo, dove ha compiuto “segni e prodigi”. Dove è morto e risorto. Dove la Chiesa ha iniziato il suo percorso missionario per le strade del mondo. Si va in pellegrinaggio per incontrare due popoli, il popolo israeliano e il popolo palestinese, oggi separati da un muro di odio e di oppressione, e per mettere una mano sulla spalla dell’uno e dell’altro, attendendo una riconciliazione che osiamo sperare solo per fede». Il pellegrinaggio, spiega ancora il priore di Marango, «altro non è che una metafora della vita. Mettersi in viaggio significa mettersi in gioco. Quella di essere pellegrini è la condizione dei cristiani. Diventare pellegrini della fede è lasciarsi dietro tutto un mondo fatto di sicurezze materiali, di orizzonti culturali, di relazioni affettive. Solo chi decide nel suo cuore questa nuova partenza, diventando per sempre “un forestiero, un uomo di passaggio” (Gen 23,4), potrà sperare di trovare un approdo sicuro, fino ad ereditare i beni promessi. La via del pellegrinaggio non è un’evasione, quanto piuttosto la ricerca di maggiori responsabilità e di un più stabile impegno, nella Chiesa e nel mondo».
Come è stato il primo impatto con la Terra Santa?
Come ogni volta, il primo impatto con la Terra Santa è un impatto lacerante. Una ferita al cuore. Tocchi con mano il dolore e la disperazione del popolo palestinese, chiuso dentro una prigione a cielo aperto. Segregato dietro ad un muro. Privato del proprio presente e del proprio futuro. Ma respiri anche la paura del popolo israeliano, impotente, malgrado il suo forte esercito, a garantire la propria sicurezza. Che fare? Scrive papa Francesco: «La cultura del benessere ci rende incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (EG 54). Ecco, siamo andati là per imparare la compassione.
Quali luoghi che avete visitato?
Abbiamo visitato tutti i luoghi della storia e della tradizione biblica, dal deserto del Negev, a Masada, da Gerico a Nazaret, da Betlemme a Hebron, e naturalmente approdando alla fine a Gerusalemme. Ma vorrei dire una cosa. Non abbiamo cercato luoghi, ma il luogo. Abbiamo attraversato deserti, fiumi e visitato paesi; ci siamo immersi nel mondo della Bibbia per cercare lo shalom di Dio, pur in mezzo ai drammi della storia. E’ per tornare al luogo del cuore che abbiamo affrontato questo impegnativo itinerario. Siamo diventati pellegrini, come molti altri prima di noi. Come ogni altro uomo che ha preso coscienza di essersi perduto e che sa che la via della salvezza è solo nel cammino. Ma se dobbiamo parlare di luoghi, vorrei sottolineare innanzitutto l’esperienza del deserto, dove siamo stati per due giorni interi. Il deserto si presenta come una dimensione indispensabile della realtà. Il deserto è la realtà spogliata di tutto, fuorché della sua essenza. Come dice san Giovanni della Croce, nel deserto si scopre il Todo e il Nada. Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne, e Dio diventa davvero un assoluto. Anche la Chiesa, nel deserto, si dilata alle dimensioni dell’universo, e i lontani diventano vicini, perché non ci sono più confini.
C’è poi Betlemme. Qui, nell’umile mangiatoia di una grotta, si sono realizzate le promesse della prima Alleanza e si sono compiute le speranze del popolo di Israele. I segni della fedeltà di Dio obbediscono alla legge della semplicità e della incarnazione. Il segno di Dio è un bambino, avvolto in fasce, un segno così piccolo e modesto che, in quanto tale, non ti costringe a credere. Ma noi quel bambino l’abbiamo preso in braccio, quando abbiamo fatto visita alla Crèche, un orfanatrofio gestito dalle suore di carità nel cuore di Betlemme. Più di cinquanta bambini, fino ai sei anni, spesso frutto di violenza, che portano negli occhi i segni evidenti di una storia drammatica, nella quale spesso sono ancora le madri a pagare con la vita. Ne esci sconvolto, e non è sufficiente lasciare una generosa offerta per liberare il cuore da un pesante macigno. Natale è oggi, sempre e dovunque. Scriveva il patriarca Marco Cé: «Betlemme diventa l’unico approdo per chi cerca Dio. La strada che porta a Betlemme è lastricata di solidarietà, di condivisione, di accoglienza del diverso, di difesa del bambino da ogni violenza, di calore per l’anziano, di difesa della vita, di impegno per la pace». Vorrei infine parlare di Gerusalemme, la città santa. Abbiamo percorso i luoghi dove si è conclusa la vita terrena di Gesù, dove è morto e risorto. Dove la Chiesa ha iniziato il suo cammino storico, spinta dal vento impetuoso dello Spirito. Ma vorrei spingermi oltre. Gerusalemme è la città che il Signore ama più di tutte le città, perché in essa egli ha concentrato tutta la bellezza del mondo. Essa è la felicità di quanti la amano, la fortezza e il gaudio, la delizia e la nostalgia dei credenti, presagio della Gerusalemme futura. E tuttavia non c’è città più carica di dolore e di sofferenza. Le sue pietre millenarie custodiscono la memoria di infinite tragedie. Non c’è pietra che non sia segnata dal sangue, dall’inizio della sua storia fino ad oggi.
Ma come sarà Gerusalemme, domani?
Oso sperare, solo per fede, che sarà una città dove tutti gli uomini e tutti i popoli si incontreranno nella pace, ebrei e palestinesi, europei ed africani, nord e sud del mondo. Alla fine dei giorni Gerusalemme sarà una città posta sul monte più alto, come dice il profeta Isaia, e tutti i popoli ritroveranno in essa le loro origini, perché tutti là siamo nati. E’ anche per questo che ci torno ogni anno, in un pellegrinaggio di amore e di speranza. Con incrollabile fiducia.