La fila è lunga, dura 1 ora. Un drive-in stile cinema degli anni ’50, solo che in fondo al parcheggio non c’è uno schermo ma una grande tenda bianca.
Lì dentro fanno i tamponi per il Covid-19. Senza che i «pazienti» debbano scendere. Le auto in fila lunedì 21 erano quelle dei «nostri» compagni di classe. 3 anni in media, i piccoli si guardano, si salutano dai finestrini. «Hai visto, c’è anche Valentina! Dove andiamo, mamma, cos’è quella tenda?» «A fare il tampone per il Covid19, amore, lo sai».
No, non siamo «speciali». Il tampone di controllo lo hanno fatto tutti in questi giorni (o quasi) ed è toccato anche a noi. Una trafila di quelle ormai diventate comuni: insegnante positivo, alcuni compagni pure, tamponi di controllo previsti per tutta la classe. E auto in fila al drive in. Con dentro una fila di nanetti con libretti, macchinine e treni per ingannare l’attesa, che si urlano «ciaoooo» dai finestrini.
Ce ne siamo andati con il risultato: negativo. Almeno per ora si tira un respiro di sollievo. Ma non è finita. Il protocollo sanitario prevede 10 giorni di isolamento dall’ultimo contatto (l’11 dicembre con l’insegnante) con tampone alla fine. Dovremmo esserci, insomma. E invece no. Improvvisamente tutto salta 30 minuti dopo l’esito del tampone rapido con il «bip» della chat di classe.
Alcuni bimbi sono positivi. Le loro famiglie avvisano tutti e a questo punto l’ultimo contatto si sposta al 16 dicembre. Mercoledì 16 la maestra era a casa ma i bimbi erano in classe tutti insieme.
Risultato? I 10 giorni finiscono il 26 quindi. Natale in isolamento. E lo stesso faranno tutte le altre 16 famiglie della nostra classe. A tutti prende lo sconforto.
Niente festa, niente nonni, niente pranzo insieme. Quando le cose ci sono le dai per scontate, quasi te ne lamenti (chi non si è mai lamentato dei lunghi pranzi di festa in famiglia alzi la mano), quando mancano capisci improvvisamente cosa vuol dire non averle. Ma non ha senso.
Ci vogliono 48 ore anche a noi per metabolizzare. Ma poi ci scuotiamo dal torpore. In un momento come questo pensare alla festa mancata è ridicolo. Con l’emergenza in corso, le persone che muoiono, i posti letto che non bastano nemmeno per curare i malati gravi, e la morte ad un passo pensare alla festa sembra veramente la dimostrazione di incapacità di una prospettiva corretta. Una piccola cosa. Per accorgercene a noi basta un cambio di provincia.
A Verona, a meno di un’ora di auto lavora lo zio. Vice responsabile della Covid Unit reparto di medicina generale all’ospedale di Borgo Roma. E ogni sera si spoglia dei vestiti del lavoro e torna dai suoi tre figli, sperando di non attaccar nulla a nessuno di loro.
«I numeri sono alti, abbiamo dovuto spostare dei pazienti a Belluno non ci stanno più» ci ha detto la settimana scorsa. Lui la morte la vede in faccia ogni giorno, monitora i numeri crescere e la saturazione dell’ossigeno dei suoi pazienti. Qualcuno ce la fa, qualcuno no. Non è una situazione nuova ma non per questo è diventata più leggera.
Forse a Natale avrà dei turni in ospedale, forse li avrà la zia, medico anche lei. Se così fosse li faranno e poi torneranno a casa e taglieranno il pandoro. Come faremo noi, come faranno tutti quelli chiusi in quarantena nelle loro case.
Perché non ci si può fermare. Perché andiamo tutti avanti lo stesso. Perché le cose funzionano solo così. Ed è l’unico modo di farle funzionare davvero.
Alice D’Este