La medicina sta mostrando che siamo noi stessi i primi artefici della lotta contro un tumore. Nel senso che è il nostro sistema immunitario – prima poco considerato – ad essere oggi posto in primo piano, grazie alla terapia immunologica. Un passo avanti importante, che si abbina alla cura sempre più su taglia del paziente, sempre più “sartoriale” rispetto alla persona ammalata di cancro.
Quest’accelerazione è il fatto nuovo più rilevante di questi ultimi dieci anni: Paolo Morandi, primario di Oncologia nell’Ulss 3 Serenissima, si riferisce proprio a quest’ultimo decennio, quello da quando dirige i reparti per la cura dei tumori negli ospedali di Mestre e Venezia.
Le due strategie vincenti. La conseguenza è importante: «Quello che cambia radicalmente – spiega – è il calo della mortalità di alcune forme tumorali, con conseguente aumento della sopravvivenza. Tutto ciò per l’introduzione di due strategie: la terapia immunologica e la sempre più spinta profilazione individuale, cioè la creazione di una specie di carta d’identità per quella malattia in quel paziente, che si ottiene con tecniche di sequenziamento genico».
Quello che dieci anni fa solo si immaginava oggi è una routine: «E i risultati si vedono, soprattutto per il tumore al polmone ma anche per molte altre forme neoplastiche. Il melanoma metastatico, per esempio, dieci anni fa aveva sopravvivenze a cinque anni del 5-10%, che adesso invece raggiungono il 40-45%». Poi, certo, ci sono anche gli organi ammalati di cancro che reagiscono meno bene: il pancreas e il cervello, per esempio, hanno registrato nello stesso intervallo di tempo solo dei modesti miglioramenti.
Però molti progressi sono significativi e incoraggiano a proseguire lungo la strada nuova. Il punto di partenza è «capire che cosa posso offrire a quel paziente con probabilità di buon risultato, e adattarlo alla sua situazione. Per questo oggi abbiamo test nuovi, di routine, che possono dare indicazioni in senso predittivo positivo – cioè si può fare quella terapia e se ne avrà un vantaggio – sia in senso predittivo negativo, per cui quella certa terapia non va bene e occorre sceglierne un’altra».
Da ultima spiaggia a risorsa primaria. Fatte la diagnosi e la profilazione della mutazione in cui consiste il cancro, oggi entra in gioco l’immunoterapia: «Cioè quella – precisa il primario – che dieci anni fa era considerata l’ultima spiaggia, mentre ora è un trattamento che sempre più addirittura precede l’intervento chirurgico, perché consente già di per sé di ridurre il tumore. L’immunoterapia non funziona nel senso che è un farmaco contro la neoplasia: è invece uno strumento che toglie i freni al nostro sistema immunitario. Siamo noi stessi, infatti, che facciamo questo lavoro contro la malattia supportati da un farmaco che svela al nostro organismo l’inganno che le cellule tumorali hanno indotto, traendole in errore. In genere, infatti, il nostro sistema immunitario non le vede come estranee e quindi non scatta una reazione; le cellule mutanti, infatti, si adattano all’ambiente e producono alcuni recettori dinanzi ai quali il sistema immunitario non riconosce la presenza delle estranee e non interviene».
È in questo quadro, invece, che i farmaci dell’immunoterapia, con meccanismi diversi, tolgono il freno, consentendo alle nostre difese di porsi all’opera. «Chiaro – aggiunge il dott. Morandi – che se tolgo i freni ad un sistema che lavora in modo molto fine posso avere anche degli effetti collaterali non gradevoli: il sistema immune presiede a tutto il nostro organismo, per cui si possono contestualmente sviluppare delle alterazioni a livello della tiroide, del pancreas, delle ghiandole che normalmente sono protette…».
Ma il gioco vale la candela. E la conseguenza positiva è la forte crescita del numero di pazienti lungo-sopravviventi: «Persone – riprende il primario di Oncologia – che vivono molto più a lungo, in trattamento o grazie ai trattamenti, per le quali bisognerà al più presto ripensare alcune situazioni, perché hanno dei bisogni che andranno soddisfatti con modalità diverse dal venire in ospedale, cosa che per i numeri crescenti non è più sostenibile».
Concretamente: «Dieci anni fa non lo avremmo detto, ma adesso per molte persone e per un certo numero di patologie la guarigione è un dato acquisito».
Però ci sono delle fragilità indotte anche dai trattamenti: ci sono infatti gli effetti collaterali delle terapie, dall’osteoporosi alla ipercolesterolemia, al diabete o all’ipertensione, di cui è più facile ammalarsi dopo una diagnosi di neoplasia.
Un ruolo diverso per il territorio. L’ospedale non riesce più a farsi carico di questo numero crescente di pazienti: «Per cui, se c’è un problema, in due giorni rivedo il paziente e affronto la questione; ma se le cose stanno in equilibrio e subentra per esempio l’osteoporosi, bisogna che un supporto venga dal territorio». I medici di base ma anche le reti sociali, a partire dalle associazioni, sono i candidati ideali per intervenire, a supporto dei pazienti e delle loro famiglie: bisognerà però sostenerli per consentire loro di fare di più – con maggiori risorse e tempo – il proprio compito.
Giorgio Malavasi