Rivedere il modello di accoglienza dei migranti. Perché i migranti non sono come li vorremmo noi e neppure come vorremmo diventassero. E se non si corregge un po’ il tiro, si rischia di indebolire la volontà di essere accoglienti e di voler aiutare chi è in difficoltà.
Non era certo questo il titolo dell’incontro promosso, giovedì 17 maggio, a Mestre, dall’associazione “Di Casa”. Ma è l’idea che serpeggia e che torna con insistenza nei numerosi interventi di chi all’accoglienza dedica tempo, intelligenza e passione.
«Qui non è come ci immaginavamo». L’ospite principale è Germano Garatto, della Fondazione Migrantes, l’organismo creato dalla Cei per accompagnare e sostenere le diocesi nell’accoglienza di chi migra e per favorire il sorgere di un clima di pacifica convivenza in una società sempre più multietnica.
Garatto da cinque anni vive e opera a Lampedusa; e forse proprio perciò ha una percezione del tema molto legata all’emergenza, al quando si sbarca da un gommone e si è da poco terminata un’avventura perlopiù drammatica, pericolosa, a volte atroce.
Certe cose, in realtà, le individua: «Il primo impatto, per molti migranti – afferma – è: “qui non è come ci immaginavamo”. Arrivano, in genere, persone con un progetto, che in fretta scoprono poco aderente alla realtà».
Un turn over sempre più rapido degli operatori. L’operatore della Fondazione Migrantes rileva anche un disagio crescente in chi poi, dopo il primo soccorso, si impegna nell’accoglienza: «Vedo una fatica grande degli operatori a stare dentro alle contraddizioni e incongruenze che gli si parano dinanzi. Vedo un turn over sempre più veloce di operatori che non ce la fanno più e vogliono uscire. In parte dipendono dal confronto con i comportamenti del migrante, che possono sembrare incomprensibili o inaccettabili. Sono gli shock culturali della civiltà della migrazione».
Ed è nelle parole di chi a Mestre e nella terraferma mestrina si occupa con generosità di migranti che le contraddizioni emergono nitide: «L’eventualità di un rientro in patria, nelle persone che ho conosciuto, è un’ipotesi che non esiste», osserva Maria Pozzi, volontaria dell’associazione “Di Casa”. È lei a coordinare gli altri volontari che accompagnano quattro giovani donne africane nella loro vita presso l’appartamento di Marghera che l’associazione stessa ha reso disponibile.
L’Italia, bella come un film… La cosa più bella dell’Italia, di Marghera e di noi italiani, per queste ragazze? «È lo stesso motivo – risponde Maria Pozzi – per cui sono venute qui: perché avevano un sogno di vivere come si vede nei film. Loro hanno quello nell’immaginario: nei film vedono la macchina, la casa bella, i vestiti, il tacco… E oggi, nonostante abbiano visto quant’è diversa la realtà, non è cambiata la loro idea. Sono agguerrite: ci tengono tantissimo a riuscire. Ognuna a modo suo, ognuna esprimendo la volontà di studiare e lavorare o di fare confusione; ma tutte ferme e determinate: “Maria – mi chiede una – come si dice questo in italiano corretto, che devo fare l’esame? Poi ce n’è un’altra che esce alla mattina e sparisce…».
«Anch’io non ho percezione di volontà di rimpatrio da parte loro, anche a fronte del potersi presentare alla famiglia o alla società d’origine non come perdente, ma vincitore»: è l’osservazione di Silvia Tonicello, che guida la cooperativa “Il Lievito”, che ha una lunga ed efficace storia di gestione dell’accoglienza e dell’integrazione di migranti. Sono gli operatori della coop. Il Lievito a sostenere professionalmente i volontari dell’associazione “Di Casa”. «Io vedo persone – prosegue Silvia Tonicello – che, a prescindere da quale sia o sarà il loro contesto, il tenore e la modalità di vita – e questo è grave – hanno deciso che qua restano, a costo di andare sotto i ponti, di spacciare o di prostituirsi. E quando gli si domanda il perché, rispondono che a casa non c’è futuro e che il futuro loro lo vedono solo qua».
«Le loro priorità non sono le nostre». Scelte e comportamenti non facilmente comprensibili: lo rimarca Cecilia Cortesia, che accompagna altri quattro migranti africani, ospiti in un appartamento a Malcontenta: «La fatica più grande di quest’esperienza? Capire che cosa vogliono, perché a volte mettiamo davanti i nostri desideri nei loro confronti: che siano ordinati, che si sveglino in tempo, che vadano a lavorare… Invece, a volte, queste cose non vengono rispettate e vengono messe davanti altre priorità, che noi non capiamo».
Ma i migranti che cosa vogliono davvero? «Vogliono essere persone con desideri e sogni personali, senza adeguarsi sempre a richieste che vengono da fuori e da altri. Hanno percorso particolari e difficili, traumi, spesso molta solitudine…; e nella solitudine hanno imparato a tenere lontano gli altri. Comprenderli e aiutarli non è facile».
C’è un grande problema di comunicazione, sottolinea Francesco Vendramin, direttore della mensa-dormitorio Papa Francesco aperta dalla Caritas diocesana a Marghera: «La logica del pensiero dei migranti è molto più semplice della nostra. È come fosse basata su un sistema duale: io povero e tu ricco, io uomo e tu donna… Il nostro sistema è invece più articolato e si basa sulle sfumature. Perciò in noi operatori c’è la tendenza ad applicare all’altro il nostro modo di ragionare e di vivere, che cozza con le differenze di una società multietnica».
A offrire una delle possibili via d’uscita da una contraddizione che si fa più evidente è l’esperienza di Marta Battistella, 26enne che solo un mese fa, insieme a due amiche, ha avviato lo sportello “Attivazione”: «A noi sembra sempre di accompagnare, e invece in qualche modo ci sostituiamo ad esse, spesso senza neppure interpretarle correttamente. Allora la nostra idea è di fornire loro strumenti per essere autonomi, almeno per esigenze basilari e concrete, senza fare le cose al posto loro».
Giorgio Malavasi