«Mar de Molada è un racconto su quello spazio che c’è tra le montagne e Venezia, raccontato non a partire dalla terra ma dall’acqua, dal nome dei fiumi. Boite, Ansiei, Cordevole, Limana… sono nomi. E’ un testo. Dentro un bacino idrografico non ci sono solo i fiumi che abbiamo studiato a scuola, ma una serie di corsi d’acqua minuscoli che in certi momenti diventano un problema». E Marco Paolini i problemi li affronta, a modo suo, andando alle radici, in questo caso anzi alle sorgenti di un tema, quello dell’acqua, che oggi in Veneto e ovunque sta diventando sempre più centrale.
Siccità, inondazioni, bacini da svuotare e da riempire, da creare. Mentre in queste settimane si discute in Veneto se tornare a creare dighe, bacini da milioni di metri cubi d’acqua come l’ipotesi Vanoi (citata anche da Paolini nel suo celebre spettacolo sul Vajont), l’acqua resta bene prezioso, vitale e mortale per il territorio. Una carta geografica di ramificazioni che dalle sorgenti del Piave in giù costruisce e segna il territorio fino a Venezia. L’attore e autore veneziano da qui parte per quattro date, a cominciare dall’alba del 14 settembre dai prati di Malga Ciapela, a due passi dai Serrai di Sottoguda, per “Mar de Molada. Storie di crode, rive, grave, palù, arzeri, valli, idrovore, aqua e tera, tra Venezia e Piave”, quattro spettacoli di teatro campestre, uno a settimana fino al 5 ottobre, lungo il corso del Piave dalla Marmolada a Venezia. Con una prospettiva inconsueta: quella delle acque, delle fonti, dei torrenti, dei fiumi, delle valli, della laguna, elementi fondamentali della vita, del nostro modello di sviluppo, dell’agricoltura, delle città.
«Ogni spettacolo sarà un evento unico legato al luogo in cui verrà rappresentato – spiega Paolini -. Nella prima tappa, in Marmolada partirò dal ‘seracco’ avendo alle spalle proprio il teatro della tragedia del 2022 per arrivare a parlare di ‘gatoi’, le fogne di Venezia, che non ci sono». Dopo la prima tappa, proposta alle 7.30 del mattino, Paolini si sposterà alla Certosa di Vedana il 21 settembre, sulle Grave del Piave, poi il 28 e il 5 ottobre nel veneziano a Vallevecchia per l’ultima tappa di foce.
«Il Piave non può restare attaccato al mito della Prima Guerra Mondiale, che grida “non passa lo straniero”. Il Piave di tutti i giorni è un’altra cosa, è matrice del terreno su cui mettiamo i piedi – afferma Paolini -. Ogni terreno su cui piantiamo le nostre fondamenta viene dal fiume, dal Piave, dal Tagliamento, dal Brenta, ogni spiaggia dell’Adriatico che pensiamo venga dal mare invece viene dal fiume. Ogni cosa che facciamo deve dar conto che tutti noi viviamo in riva al mare». Questa la filosofia della Fabbrica del Mondo, sotto le cui insegne Paolini torna a parlare di acqua, protagonista in Veneto nelle scorse estati della grande siccità che ha messo in crisi i produttori agricoli, quest’anno delle piene improvvise, dei dissesti, degli incidenti mortali. Un territorio che occorre saper leggere in chiave non solo di passato ma, per Paolini, anche di futuro.
«La storia del nostro territorio, il Veneto, può essere letta come la storia del nostro rapporto con il Piave: per cinque secoli la missione era tener fermo il tronco, dove volevamo che stesse, anche quando la forza impetuosa delle piene lo spingeva a cambiare corso. Poi abbiamo avuto come grande missione la bonifica, rendere coltivabili 400 mila ettari di “palù”, un terzo del territorio veneto, e per farlo abbiamo avuto necessità di pompe efficienti, pompe che abbiamo avuto quando è arrivata l’elettricità. Infine il Piave è diventato la nostra fonte energetica. Nel dopoguerra il monopolio della Sade, Società Adriatica di elettricità, ha pensato che dalle dighe sul Piave fosse possibile produrre il 15% del fabbisogno di corrente elettrica italiana. Un disegno che non prevedeva in alcun modo che l’acqua potesse scarseggiare». In questi anni, sempre più prepotente, il tema dell’acqua è diventato urgenza quotidiana e amministrativa. «Nel bene e nel male quei disegni hanno lasciato un segno – continua Paolini – da lì si deve partire per lasciare le rive e il fiume come stanno o come vorremmo che stessero. Per passare dalla ‘protezione’ alla ‘prevenzione civile’».
Maria Paola Scaramuzza
(foto di Gianluca Moretto)