Ci sono, in Italia, tanti esperti che dedicano la vita a capire come si fa a difendere il territorio. Basterebbe ascoltarli e agire di conseguenza, invece di fare “prevenzione idraulica da bar”.
Lo sostiene Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, climatologo e fra i più noti divulgatori scientifici in Italia.
Mercalli, nel ’66 ci fu un evento paragonabile a quello dei giorni scorsi, però il numero delle vittime, degli sfollati, dei danni economici è stavolta fortunatamente inferiore. Merito di consapevolezza accresciuta, in questi 52 ani, e di opere realizzate?
Fare paragoni su queste cose è difficilissimo. L’unica cosa certa è che, rispetto al ’66, oggi abbiamo le previsioni meteorologiche. Stavolta lo si sapeva con tre giorni di anticipo quel che sarebbe successo, mentre nel ’66 si fu davvero colti di sorpresa. Il potersi preparare in anticipo aiuta in molti casi, almeno per la riduzione delle vittime umane. Poi, rispetto a molti danni materiali, non puoi fare niente, perché il sapere tre giorni prima non ti consente di impedire una frana facendo delle opere in emergenza. Però almeno la struttura di protezione civile la puoi organizzare bene.
Significa, comunque, che la prevenzione è la strategia giusta…
Certo. Poi ci sono i problemi infrastrutturali. Rispetto al ’66, si pensi a quanto costruito c’è in più, incluso quello abusivo, come nel caso della Sicilia… Il che fa intuire che l’alluvione del ’66 avrebbe potuto fare ancora più danni se fosse accaduta oggi dato che, nel frattempo, ci sono stati 52 anni di tumultuoso sviluppo urbanistico e infrastrutturale. Però, probabilmente, l’effetto delle previsioni meteorologiche con tre giorni di anticipo ha permesso di parare un po’ il colpo. Tranne per quelli che non vogliono ascoltare. Il caso della Sicilia è emblematico: quelle povere persone mangiavano tranquillamente nella casetta abusiva mentre c’era l’allerta rossa…
E di quanto accaduto al Nord cosa pensa?
Al nord è successo quel che sarebbe successo in qualsiasi Paese: anche in Austria o in Svizzera un fenomeno così avrebbe avuto gli stessi effetti. Non dobbiamo rimproverarci niente, secondo me, nel Bellunese. È stato veramente un episodio anomalo, intenso, importante, al pari di quello del ’66.
E tantomeno dobbiamo rimproverarci l’ambientalismo da salotto?
Salvini ha in mente la pulizia dei fiumi come unico antidoto alle alluvioni. Come se tu, pulendo i fiumi, non avessi più l’alluvione. Il che è una sciocchezza, perché è vero che in alcuni tratti il fiume va pulito; ma attenzione: un fiume troppo pulito non fa che restituire il problema a chi vive più a valle, perché accelera la velocità delle acque.
Quindi?
Quindi un conto è la pulizia dai rifiuti, e su questo siamo tutti d’accordo. Ma l’eradicazione della vegetazione naturale è, al contrario, una follia. La vegetazione naturale contiene le alluvioni e limita le erosioni. Insensata una “prevenzione idraulica da bar” quando invece abbiamo dei professionisti, in Italia, che lavorano nelle facoltà di ingegneria idraulica e nelle facoltà di scienze forestali, che tanno addirittura cambiando il modello di gestione dei fiumi. Un esempio recentissimo: l’Alto Adige, l’anno scorso, ha tolto le opere di difesa spondale fatte negli anni ’70 per riportare un fiume al suo stato naturale. È uno dei primi casi in Europa. Si è smontata l’idea di Salvini, ritenuta obsoleta, superata. Il concetto invece è: bisogna dare al fiume il suo spazio e lì non bisogna metterci niente: non devi costruire case, non devi fare attività ricreative… Nello spazio del fiume, il corso d’acqua dev’essere libero di vagare; e quando c’è un’alluvione, l’alluvione stessa è contenuta in una zona di pertinenza del corso d’acqua. Troppe opere vanno ritenute, al contrario, dannose.
In Veneto, in questi ultimi vent’anni, sono state fatte opere di difesa idro-geologica: dai bacini di laminazione a tanti altri interventi puntuali…
Appunto. La risposta fondamentale è che curare il territorio è come curare le persone: non c’è una ricetta che va bene per tutti. Un fiume da una parte puoi gestirlo in un certo modo, da un’altra parte puoi fare un’altra cosa. Quindi è difficile fare sia confronti sia ricette. Alcuni fiumi, in certe situazioni, hanno un comportamento che si affronta magari con un argine; altri con un rimboschimento; altri ancora con il lasciar tutto così com’è.
Ma sapendo che di persone esperte in Italia ce ne sono, non è che la difficoltà consista nel trasferire queste conoscenze a chi, nelle istituzioni, ha il compito di decidere?
Sì. Io sono dell’idea che produciamo un sacco di magnifica ricerca scientifica che poi sta nei cassetti. È la scienza sprecata…
E per sprecarla di meno, che fare?
Una democrazia più partecipata dove, negli organi competenti del Governo, siano accolte le proposte di questi consulenti ed esperti. È famosa ancora l’antica commissione De Marchi, costituita dopo le alluvioni del ’66. Non c’era internet e non c’era skype, ma i migliori ingegneri idraulici d’Italia di 50 anni fa, su richiesta del Governo, redassero il piano di difesa idro-geologica del Paese, che è ancora valido oggi, ma mai realizzato. Basta prendere esempio da questo episodio, potendo usare tutti i mezzi in più che ci sono oggi: i satelliti, le reti di strumenti di misura… Possiamo fare cose immensamente più di mezzo secolo fa. Basta che prendiamo quel metodo e lo attualizziamo. E che il Governo poi risponda alle proposte fatte dagli esperti.
Giorgio Malavasi