La carità all’interno di una Chiesa ha diversi volti e modalità di offrirsi e presentarsi. Una di queste è certamente l’attenzione per le persone ammalate, ma anche per i familiari e il personale che opera all’interno delle diverse strutture (ospedali, case di riposo, Rsa, hospice e, per ultimo, gli ospedali di comunità).
Attenzione questa che si dilata anche all’interno delle singole abitazioni con la presenza di volontari e ministri straordinari della comunione oltre che sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose.
Certamente all’interno dell’ospedale – luogo che diventa sempre traumatico per chi vi entro come ammalato, ma anche per i familiari – si presta la nostra attenzione attraverso un servizio religioso che oggi si chiama “cappellania”.
Sia all’interno dell’ospedale all’Angelo di Mestre che in quello dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia abbiamo la presenza di due sacerdoti a tempo pieno e di quattro diaconi in “part time”; a Mestre c’è anche la presenza preziosa di una religiosa a tempo pieno e di alcuni ministri straordinari della comunione. In entrambi i casi le cappellanie si adoperano affinché ogni paziente possa avere accanto il proprio ministro di culto, sia esso di altre confessioni cristiane o di altra fede (ad es. islamica o ebrea). Con discrezione si sta accanto anche a chi non è credente.
Il lavoro allora si svolge su diversi fronti: i malati che, alle volte, portano con sé paure e preoccupazioni, speranze ed attese; i familiari che, alle volte, faticano a confrontarsi con la malattia della persona alla quale si è legati da affetto e difficilmente si accetta la presenza di dover restare all’interno dell’ospedale.
Ma anche gli operatori sanitari: operatori socio sanitari, tecnici, infermieri, medici ed anche gli uscieri sono sottoposti a momenti di tensione che mette in movimento la parte più intima del proprio io, con la tendenza di dilatare fatica e sofferenza anche negli ambienti familiari e comunque fuori dal contesto lavorativo.
Certamente fino a qualche decennio fa la presenza dei sacerdoti – o religiosi o religiose – era molto significativa all’interno dei nosocomi; molte volte come dipendenti della stessa struttura o perché dipendenti, come infermiere o caposala, oppure come cappellano.
Oggi nelle nostre realtà nessuno è dipendente della struttura sanitaria anche se la normativa lo consentirebbe e pur stando in ospedale per molte ore al giorno. Il contributo forfettario è di € 120.000 annui, una somma che comprende – oltre ad un compenso per coloro che vi operano – anche l’indennità di alloggio, visto che oggi più nessuno delle figure della cappellania vive all’interno dell’ospedale: una scelta fatta dalla Direzione dell’Azienda Sanitaria per ridurre i costi del servizio religioso (ricordo, infatti, che gli ultimi religiosi presenti nell’ospedale di Mestre – l’ex Umberto I – erano i Padri Camilliani con tre religiosi che vivevano all’interno dell’ospedale stesso, mentre a Venezia i padri Cappuccini svolgevano il loro servizio all’interno dell’ospedale Ss. Giovanni e Paolo abitando in ospedale).
La carità non può essere letta solo con gli occhi dell’economia ma con la forza della condivisione e di percorrere insieme un tratto di strada, alle volte quello più difficile, per rispondere alla domanda sul senso del dolore, sulla morte e sul dopo. Domande che tutti ci poniamo ma che, da un letto di ospedale, diventano ancora più pressanti. E agire su questi fronti – lo si può dire anche dal punto di vista economico – fa risparmiare, non spendere di più.
mons. Dino Pistolato
Direttore Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute