«C’è il paziente che viene dimesso e tu vai a pulire e sanificare la stanza; ad un certo punto trovi un biglietto scritto sulla salvietta della cucina, perché non c’è altra carta, con su scritto: “Grazie per tutto quello che avete fatto”. Beh, è una grande soddisfazione».
È la soddisfazione di Katia Di Tos, infermiera al Covid Hospital di Jesolo, e di tanti altri suoi colleghi. È la percezione di aver dato il meglio di sé di fronte ad una difficoltà grande e sconosciuta, che genera più paura e angoscia perfino delle grandi malattie del nostro tempo.
All’inizio una sensazione di impotenza. E a dirlo non è un’esordiente, ma una veterana. Sì, perché Katia è infermiera da 38 anni e di malattie e malati ne ha visti tanti, in tutti gli ambiti in cui ha lavorato: al pronto soccorso, in lungodegenza, negli ambulatori di oncologia e cardiologia…
«Ma ad un certo punto, un mese fa – racconta – mi sono ritrovata a lavorare in un reparto di malattie infettive. Ho dato la mia disponibilità, perché il mio lavoro mi piace e lo faccio con passione; così, quando è stato creato l’ospedale Covid, ho detto subito di sì. Ma mi sono trovata in un mondo completamente nuovo».
La prima impressione è stata di impotenza: «Non tanto rispetto alle tecniche e procedure, che si imparano e si affinano, ma nella relazione con il paziente. All’inizio c’erano soprattutto persone anziane, che non sapevano ancora a cosa andavano incontro ed erano disorientate. Ricordo uno che, vedendomi con camice, tuta, mascherina e visiera, mi ha detto: “Sembri un’astronauta”. Il fatto, poi, di non saper usare bene il cellulare li rendeva ancor più frastornati e soli. E non è che noi del personale potessimo supplire a tutto: non possiamo fermarci più di tanto a intrattenere relazioni, ne hai altri dieci da seguire; e poi più aumenta il tempo di permanenza nella stanza più rischi di contrarre anche tu il virus…».
All’inizio l’ospedale era al completo: i quattro reparti da 13 posti letto ciascuno erano al tutto esaurito. Solo adesso si inizia a respirare: lunedì 13 aprile i degenti, in totale, erano 38, più 4 in terapia intensiva.
La paura di non farcela. Il loro modo di vivere il ricovero, anche se meno disorientati rispetto a un mese fa, è però simile: «Al centro di ogni pensiero – riprende Katia – c’è la paura di non farcela. La cosa brutta è che entri, hai la polmonite ma magari stai discretamente bene; solo che nel giro di poche ore può arrivare una crisi respiratoria e puoi essere improvvisamente trasferito in unità intensiva. Perciò controlliamo più volte al giorno i parametri principali».
Oltre a quella paura c’è l’ansia per i cari a casa, che sono in quarantena e che si teme possano infettarsi anche loro. È perfino peggio rispetto all’avere le patologie più importanti del nostro tempo, come i tumori e le malattie del sistema cardio-circolatorio: «Perché con il cancro o con l’infarto – riflette l’infermiera di Jesolo – uno dice: le cure ci sono e hanno un certa efficacia; oppure, se ho i soldi, vado a curarmi da quel certo luminare o in quel centro… Invece il Coronavirus ti prende quando meno te l’aspetti e non fa differenze di censo e condizione sociale. E benché statisticamente faccia meno morti del cancro o dell’infarto, fa più paura, perché è nuova e sconosciuta».
«Non dico mai al paziente “Andrà tutto bene”». La paura, appunto: «Si cerca di dare conforto al paziente standogli vicino, per quanto possibile. Io non dico mai al paziente “andrà tutto bene”, perché è una bugia e si capisce che non necessariamente andrà tutto bene. Meglio tenergli la mano, mentre gli prendi i parametri: è più importante quel contatto, anche se filtrato da due paia di guanti, che parole che suonano false».
E anche quando la situazione precipita è la presenza a valere più di qualsiasi altra cosa: «La tragedia – conferma Katia – è che non puoi fare entrare nessun parente. Ma con tutte le persone che ho visto morire ciò che fa la differenza è che ci sia qualcuno accanto a loro, a tenere loro la mano, senza tante parole, solo per far percepire che ci sei, che c’è qualcuno che sta pensando a te…».
Quel che è certo, comunque, che tutto il personale sanitario, in questo periodo, «ha cercato di dare il massimo. Nell’arco di un mese molte conoscenze sono cambiate ma anche noi ci siamo accorti che molte cose potevamo migliorarle, e tutti si sono dati da fare, rafforzando così il gruppo dei colleghi. E vale per tutti, direi a partire da chi si occupa delle pulizie, di cui raramente si parla, ma che rischia il contagio come tutti noi e svolge un servizio essenziale».
Jesolo, la solidarietà di tante gente. E poi c’è il sacrificio anche in termini personali: «Perché è vero che fai il tampone – precisa Katia Di Tos – ma quello serve per sapere che in quel momento non sei positiva; ma il giorno dopo potresti già esserlo. Così mantieni tutte le precauzioni possibili con la tua famiglia. Io a casa, per fortuna, posso avere un bagno per me, ma mi costa tenere le distanze con mio marito e i figli e il giorno di Pasqua non poterli abbracciare e limitarmi a un “ciao, auguri” da distante… Per non parlare dei colleghi che hanno scelto di vivere tutto questo tempo per conto loro…».
Il contrappeso è salvare vite e ricevere anche tante soddisfazioni: «È bello vedere, a Jesolo, la solidarietà di tanta gente: per Pasqua in tanti ci hanno mandato le vongole, uova di cioccolato e colombe, che abbiamo condiviso con i pazienti. Un collega, che si occupa di mantenere i contatti con i familiari, l’altro giorno mi diceva: “Sono venuti i parenti di un degente a portare il cambio di vestiario e dentro hanno messo un bigliettino: Grazie – c’era scritto – per la sua disponibilità a dirci sempre come sta”. È il premio della fatica».
Giorgio Malavasi