Loro sono i superstiti del destino. Papà Abdullah, mamma Xanzad e i piccoli Taman e Aylan, sono la famiglia curda-irachena che da aprile è ospitata nella canonica della parrocchia di San Silvestro, di cui è parroco don Antonio Biancotto. Dopo un lungo periodo di adattamento, domenica 9 nel patronato di San Cassiano, al termine della celebrazione liturgica, la famiglia ha incontrato la comunità, presentandosi e condividendo un momento di fratellanza davanti ad una bella tavola imbandita. Oltre ai sapori occidentali mamma Xanzad, per far assaporare un po’ della loro cultura, ha preparato delle pietanze tipiche orientali: il dolma, un piatto di riso carne e verdure, e delle polpette preparate con riso e carne macinata soffritta. È così che in un ambiente accogliente la famiglia ha raccontato alla comunità il lungo viaggio intrapreso per fuggire dal loro paese d’origine, l’Iraq: «Siamo scappati da Makhmur (città vicino a Mosul) perché stava arrivando l’Isis e avevamo paura di morire» iniziano a raccontare i due giovani coniugi, entrambi al di sotto dei 30 anni, descrivendo il dramma di dover lasciare la loro casa. Come loro, se ne sono andati quasi tutti gli abitanti della città, lasciandola deserta: «Abbiamo portato con noi solo acqua, pane e datteri, insieme a qualche vestitino per nostro figlio Taman che era nato da soli 4 mesi» spiegano Abdullah e Xanzad, stringendosi a vicenda nel ricordo di quei momenti di dolore. Il loro viaggio è stato un peregrinare durato diversi mesi, principalmente per boschi e montagne, dall’Iraq fino all’Ungheria attraverso Turchia, Serbia e Bulgaria.
«Finiti il cibo e l’acqua, bevevamo dalle pozzanghere». «Ad un certo punto abbiamo esaurito l’acqua e il cibo, allora bevevamo dai fiumi e dalle pozzanghere putride. Abbiamo avuto per molto tempo dolori fortissimi alla pancia e siamo stati tanto male» ricordano. Poi per fortuna durante il cammino hanno incontrato altri esuli che hanno offerto loro del cibo, ma si sono fermati anche in un campo profughi incontrato durante il tragitto. In tutta questa sofferenza il pensiero più grande però era per il figlio: «In quel periodo stavo allattando Taman e passando i giorni il mio latte iniziava a scarseggiare – racconta la mamma – ne era rimasto pochissimo e il piccolo piangeva perché aveva fame, inoltre aveva la pelle tutta rossa a causa dello sporco e degli insetti con cui eravamo costretti a vivere. Non vedevo un futuro, camminavamo tutti i giorni con il bambino tra le braccia ed eravamo senza forze e affamati. Nel percorso vedevamo morire adulti e bambini, cadevano a terra e non si rialzavano più». II loro è stato un cammino diviso tra l’orrore da cui scappavano e un desiderio di speranza che a volte, a causa delle difficoltà, vedevano sempre più lontano.
In fuga tra i boschi. Uno dei momenti più difficili durante il percorso a piedi è stato quando una notte la polizia li cercava: «Eravamo in montagna e abbiamo dovuto scappare e nasconderci, se ci avessero presi ci avrebbero rimandati indietro tra le bombe». Per arrivare dalla Turchia alla Bulgaria hanno impiegato una notte e un giorno interi, senza soste. «Ancora oggi quando vedo un bosco ricordo quei momenti e mi viene l’angoscia» spiega Abdullah. L’unico tratto in macchina è stato quello che dall’Ungheria li ha portati in Germania. Lì sono stati accolti per un breve periodo perché poi lo Stato li ha espulsi. Così sono giunti a Venezia dove il 1° settembre è nato il secondogenito Aylan, chiamato così in ricordo del bambino che un anno fa perse la vita durante la fuga dalla guerra sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Mentre raccontano la loro storia, presentano anche Hawren e Azhin, le sorelle di Xanzad arrivate anche loro a Venezia e ospitate a Castello. Il piccolo Aylan dorme tranquillo nella culla e ogni tanto si sveglia per essere allattato. Aylan non sa quante peripezie i genitori hanno dovuto affrontare per garantire a lui e a suo fratello un futuro migliore. La comunità li ha accolti con il sorriso e grazie a Gulala, la mediatrice culturale che fa loro da interprete, hanno potuto scambiare qualche parola. «Ora siamo felici di essere qui ma abbiamo paura di venire richiamati in Germania, per via del Patto di Dublino. Noi vorremmo restare a Venezia, trovare presto un lavoro e una stabilità». Poi rivolgono un grazie sentito a don Antonio che è sempre presente: «Ci ha accolti, per noi è come un nonno e gli vogliamo tanto bene». Si chiude con le parole di una parrocchiana: «Grazie per la vostra testimonianza, siete voi ad averci aiutato, ci avete insegnato a vedere il prossimo con gli occhi dell’anima».
Francesca Catalano