Se l’area del Portogallo, colpita un mese fa da un disastroso incendio, avesse ospitato querce da sughero, che resistono parecchio al fuoco, ci sarebbero stati meno morti e minore distruzione. Invece c’erano eucalipti, piantati di recente perché danno veloci profitti con l’industria della carta; il guaio è che gli eucalipti bruciano in fretta.
E se la Sardegna, la regione italiana che ospita l’85% di sughereti del nostro Paese, avesse introdotto le modalità di coltivazione e lavorazione di cui si sono dotate Portogallo e Spagna, oggi non ci sarebbe la crisi del sughero sardo (e italiano). Una crisi che ha generato, negli ultimi quindici anni, una morìa di aziende, con conseguenti disoccupazione e impoverimento. Nel 2007 lavoravano e vivevano grazie al sughero 3mila sardi; oggi si sono ridotti a 700; ed è di poche settimane fa il licenziamento di 80 dipendenti nell’azienda – la Ganau – di maggiori dimensioni nell’isola.
Sono due dei segnali più vistosi che vengono da un mondo – quello del sughero – che ha delle straordinarie ragioni per essere tutelato e valorizzato, ma che convive con forti contraddizioni.
Un mondo che in Veneto è in controtendenza e si sta radicando sempre di più. Le aziende che crescono sono qui, soprattutto nella zona di Conegliano (Amorim Italia e Portocork Italia, in particolare). Perlopiù rifiniscono e commercializzano i tappi lavorati in Portogallo e Spagna, magari con la materia prima sarda o toscana (vedi sotto). Insediatesi negli anni Duemila, crescono con continuità, per fatturato, qualità e quantità di prodotto.
Il problema, ad essere un pelo nazionalisti, è che di veneto ci sono il personale e la localizzazione, ma il capitale e la proprietà sono stranieri, portoghesi.
Queste poche aziende in crescita, a fronte delle numerose in crisi, dimostrano che in Italia languono la coltivazione della quercia da sughero e l’industria made in Italy della sua lavorazione. Ma il mercato c’è, eccome. E come potrebbe non essere così visto che il settore vinicolo nazionale passa di primato in primato?
Qualcosa, perciò, probabilmente non quadra nell’imprenditoria italiana del sughero; e altrettanto dicasi per le politiche pubbliche di sostegno e accompagnamento del settore.
Eppure ci sono almeno tre ragioni per interessarsi al mondo del sughero. La prima è ambientale.
Prendiamola larga: in Marocco e Algeria (30% della superficie mondiale a quercia) i sughereti contrastano l’avanzata del deserto; con le loro radici profonde hanno bisogno di poca acqua e compattano il terreno. Ma anche in Italia (10% della superficie, con 225mila ettari) i boschi che ospitano querce da sughero tutelano la biodiversità e difendono i terreni dall’erosione. Coltivare queste piante è il modo migliore per preservarle, affinché esse diano una mano all’ambiente e a noi.
La seconda ragione è sociale: ci sono circa 60mila persone, in Europa, che lavorano e vivono grazie al sughero. Si introduce così la terza ragione, che è economica. Il giro d’affari generato dal sughero supera abbondantemente il miliardo di euro l’anno, con la prima azienda, la portoghese Amorim, che fattura più di 600 milioni.
E gli usi del sughero sono i più vari: dai tappi ai materiali per l’edilizia (il sughero isola dal rumore e dalle alte e basse temperature), dalle calzature all’abbigliamento, dai pavimenti (quello della Sagrada Familia a Barcellona è in sughero) agli oggetti per la casa. E ce n’era anche sullo Space Shuttle della Nasa…
L’uso prevalente resta comunque quello dei tappi per le bottiglie di vino: in un anno, al mondo, se ne producono 13 miliardi. E con intelligenti strategie d’azienda vendite e uso crescono, contrastando efficacemente anche materiali alternativi e “moderni” come la plastica e l’alluminio.
Un esempio, tra i tanti? Quello dell’azienda che ha sconfitto la sostanza che si trasmette dal turacciolo al contenuto della bottiglia, per cui il vino “sa di tappo”. Il Tca (tricloroanisolo), grazie alla ricerca applicata alla produzione, è praticamente scomparso. E l’azienda – portoghese – che ha introdotto questa metodica fa affari. E dire che, da noi, “fare i portoghesi” vuol dire una certa cosa… Che aspettano gli italiani a “fare i portoghesi”?
Giorgio Malavasi