«Con l’apertura del primo reparto Covid, sono stata trasferita in un’altra area dell’ospedale. Dopo pochi giorni, di fronte a quanto stava accadendo, ho sentito che dovevo fare anche io la mia parte fino in fondo».
Più forte dell’inevitabile paura. A fare da guida la passione per il proprio lavoro e la volontà di aiutare chi si trova in difficoltà. Anche a costo di allontanarsi dalla propria famiglia per tutelare i propri cari.
Lei è Cristina Fossaluzza, 46 anni, jesolana e Case manager dell’Urt dell’Ulss4, dove fino allo scorso febbraio si occupava della gestione dei casi clinici nell’Unità riabilitativa territoriale. Con 26 anni di servizio, prima a Villa Salus a Mestre, poi nei reparti di Chirurgia e Medicina di San Donà e da tre anni in quello di Riabilitazione all’ospedale di Jesolo, dallo scorso marzo si è offerta per entrare in servizio nei reparti riservati ai pazienti positivi al Covid-19 aperti proprio all’ospedale di via Levantina.
La sua disponibilità a lavorare nel reparto riservato ai pazienti positivi al coronavirus è stata profondamente ponderata: come è nata?
In 48 ore, anche in virtù del mio ruolo, ho seguito assieme ai colleghi la trasformazione del reparto in Riabilitazione in un reparto di malattie infettive. Terminata la fase di allestimento, sono stata trasferita in un’altra ala dell’ospedale, anche perché ho una forma di asma. L’emergenza è aumentata rapidamente e sono stati allestiti altri reparti Covid. Avevo sotto gli occhi l’impegno dei miei colleghi: potevo fare altre scelte, ma di fronte a quello che stava accadendo ho sentito di dover fare la mia parte. Ho dato la mia disponibilità, mi sono bardata con la famosa tuta da astronauta e sono entrata in reparto.
Non deve essere stata una scelta facile…
Per niente. Due giorni prima di prendere servizio abbiamo perso una collega; da quel momento tutto è diventato ancora più difficile. Tra colleghi non abbiamo nemmeno potuto abbracciarci. E’ stato un colpo durissimo, ma sappiamo che lei è con noi e il suo ricordo ci dà una grande forza. Il gruppo di lavoro in queste settimane si è rafforzato notevolmente. A darci forza sono anche i tanti messaggi di chi è fuori e i tanti gesti di generosità che abbiamo ricevuto.
Come è nata la decisione di trasferirsi in un altro appartamento per tutelare la sua famiglia?
Dopo venti giorni di lavoro, a casa una sera ho avuto dei brividi e mi è salita la febbre. Ho fatto il tampone, che fortunatamente è risultato negativo. La paura è stata notevole, per me ma soprattutto per la mia famiglia. Il 2 aprile ho deciso di trasferirmi in un altro appartamento per tutelare i miei familiari: è un sacrificio enorme ma necessario. Non vedo mio marito, le mie due figlie e i nonni. E’ una scelta che stride con il nostro stile di vita, molte situazioni le diamo per scontate ma così non è. Ci sentiamo per telefono con delle videochiamate, per ora non possiamo fare altro.
Come è il rapporto con i pazienti?
L’inizio è stato traumatico ma l’ansia iniziale non c’è più. Facciamo, ovviamente, attenzione a tutto ma cerchiamo di parlare con loro, di confortarli e di instaurare un rapporto umano. Si tratta di persone preoccupate per la loro condizione ma anche per chi è fuori. Gli anziani sono le persone più vulnerabili, cerchiamo di parlare di quello che amano fare. E loro ormai hanno imparato a riconoscerci dai nostri occhi.
Per alcuni, inevitabilmente, siete anche l’unico contatto umano negli ultimi istanti di vita terrena…
E’ l’aspetto più straziante. I pazienti Covid non possono ovviamente ricevere alcuna visita. Noi cerchiamo, per quanto possibile, di essere vicini. Di fare un piccolo gesto di conforto, come se fossimo dei parenti.
Adesso come è la situazione?
Il numero dei contagi e dei ricoverati sta calando, sicuramente per effetto delle varie limitazioni. Dei quattro reparti aperti, ad oggi due sono attivi, uno è stato convertito in Riabilitazione e il quarto è sospeso in attesa, speriamo perpetua, di eventuali future emergenze.
Cosa ci lascia questa vicenda?
Credo che tutta questa storia ci abbia fatto da specchio, soprattutto su quello che eravamo. Mi auguro che d’ora in poi venga dato il giusto peso al nostro tempo e la giusta considerazione ai rapporti tra le persone.
Giuseppe Babbo