I pozzi, le scuole, il presidio sanitario. E adesso il progetto agricolo. Sono i frutti dei dieci anni di azione della Fondazione Elena Trevisanato Onlus in Etiopia. Creata dalla famiglia Trevisanato in memoria di Elena, giovane veneziana morta prematuramente all’età di 19 anni per una caduta da cavallo, la Fondazione è un’ideale prosecuzione delle passioni per l’altro, per la solidarietà e per l’Africa che Elena, nonostante la giovane età, aveva già saputo esprimere. Nelle scorse settimane i Trevisanato (in questo caso il fratello Paolo, con la moglie Elisa Andreoli) sono tornati in Etiopia per visionare uno per uno i progetti avviati grazie alla generosità dei veneziani e dei tanti amici che sostengono la Fondazione, a dieci anni dal primo pozzo scavato.
Il bilancio è positivo, non solo perché tutti i progetti sono perfettamente operativi. «Cosa per nulla scontata – spiega Paolo Trevisanato – perché può capitare che le comunità non si facciano carico dei progetti realizzati per loro, sentendoli come qualcosa di estraneo». E allora la conseguenza è che con l’andare del tempo quei progetti cadano in disuso… Non è il caso di quanto realizzato dalla Fondazione, che nella “Somali Region” dell’Etiopia opera sempre in collaborazione con altre Ong e con le popolazioni locali: «Cerchiamo di partire dalle loro istanze». Così, se c’è da realizzare un pozzo, è la comunità locale ad indicare quale sia la miglior collocazione, che può essere diversa da quella che avrebbero scelto gli esperti “occidentali”. «La prima volta – racconta Paolo Trevisanato – pensavamo che il pozzo andasse realizzato nella piazza del villaggio, invece la comunità locale ci ha indicato un luogo all’esterno, molto più lontano. Il motivo era che così avrebbe potuto servire più villaggi e non uno solo». Oppure la realizzazione delle scuole, fatta di concerto con il governo etiope, perché poi è lo Stato a garantire la presenza dei maestri. E così via….
Effetto moltiplicatore. Verificato, dunque, che tutto stia funzionando, i coniugi Trevisanato hanno potuto rendersi conto di persona di un altro importantissimo risvolto dei progetti realizzati. «Ognuno di essi ha fatto da moltiplicatore per altri progetti», racconta Paolo. Ad esempio, nel villaggio di Darwonaji sono stati realizzati un pozzo, un presidio sanitario e la scuola: il presidio nel tempo si è allargato, perché accanto al reparto degenza costruito dalla Fondazione (può ricoverare 10 persone), un’altra Ong ha costruito il reparto maternità. Mentre accanto alla scuola primaria costruita 10 anni fa, sempre dalla Fondazione, oggi c’è la scuola secondaria fatta dal Governo. E il piccolo villaggio è diventato un “capoluogo” per l’intera area. Anche il progetto agricolo avviato nella zona di Boadley sta per essere incrementato, grazie alla cooperazione italiana che estenderà gli ettari coltivati del progetto agricolo. «E’ un “effetto moltiplicatore” che ha sorpreso noi per primi e ci ha resi testimoni del vero significato di “cooperazione allo sviluppo”». Tanta, dunque, la soddisfazione con cui i Trevisanato sono rientrati dall’Etiopia, pur nella consapevolezza delle enormi difficoltà in cui si opera e in cui vivono le popolazioni di quella regione, che si trova al confine con la Somalia. «Per noi è inconcepibile pensare di poter vivere in quell’ambiente. Ci chiedevamo che senso ha abitare in un luogo così ostile, dal punto di vista climatico e ambientale. Ma quella è la loro terra. E tutti hanno una grande dignità in quello che fanno. Sono popoli nomadi, pastori soprattuto, hanno poco o niente. Ma se migrassero in città sarebbe peggio. Lì sì che c’è la miseria. Qui c’è una vita durissima, ma affrontata con dignità. E con poco si può dare a queste popolazioni la possibilità di rimanere nel loro territorio».
A casa loro? E’ quel concetto, spesso declinato in modo strumentale dalla politica, dell’aiutiamoli a casa loro. In questo caso davvero li si aiuta a vivere meglio a casa loro. La domanda, un po’ provocatoria, è: perché “loro” aspettano il nostro aiuto – ad esempio per realizzare un pozzo – e non si danno da fare autonomamente? La risposta è che non hanno le risorse economiche per farlo. «Pensiamo ad esempio al fatto – spiega Trevisanato – che realizzare un pozzo costa 180mila euro, una cifra folle in questo contesto. Dovrebbe farlo lo Stato, ma è povero e fa quello che può: ora sta portando l’elettricità nei villaggi, sta realizzando delle strade». La sfida aperta di recente dalla Fondazione, è quella di avviare dei progetti agricoli, in un contesto dove appunto la popolazione è nomade e dedita alla pastorizia. Ma già i primi campi coltivati a Boadley stanno dando dei frutti, non solo in senso letterale: è stata costituita una cooperativa e piano piano il progetto sta prendendo piede. In dieci anni la Fondazione ha raccolto quasi un milione di euro, ma ha potuto “moltiplicare” i progetti grazie alla filosofia che sottende l’azione dei Trevisanato: trovare collaborazione con altre realtà, locali e non, per realizzare progetti mirati e realmente utili alle popolazioni del posto. «Non ci interessa dire a tutti i costi che il progetto è solo nostro. Perché con l’aiuto di altri – chiude Paolo Trevisanato – possiamo fare di più ed è quel che conta davvero».
Serena Spinazzi Lucchesi