La Chiesa non può non abitare il web e i social. E non può esimersi anche dal tentare di lanciare fenomeni virali. Perché questi sono i mezzi e i linguaggi della comunicazione oggi. Ne è convinto don Marco Sanavio, sacerdote padovano, coordinatore della commissione per le Comunicazioni sociali della Cet, la Conferenza episcopale triveneta.
Nei giorni scorsi si è parlato molto di Elisa Maino, la ragazzina (14 anni) di Riva del Garda che può contare su un milione di follower su Musical.ly, uno dei social più in voga, dove si canta in playback e dove ciascuno cerca di muoversi ed esprimersi, con il proprio corpo, ballando davanti ad un cellulare.
C’è chi arriva ad avere un milione di “mi piace”, come l’adolescente Elisa, e chi anche venti milioni, come altri ragazzi più o o meno della stessa età in giro per il mondo. Un fenomeno fra i più recenti, che ingrossa il fiume dei social media, uno degli ambienti più graditi dai ragazzi (e non solo) per comunicare e dire la propria.
La Chiesa può starne fuori? No, sottolinea subito don Sanavio: «Noi faremo fatica, con il tipo di tessuto formativo e morale che abbiamo creato nei nostri ambienti, a “sparare” questi fenomeni. Non ci è mai capitato di mandare neppure un cantante nostro a Sanremo, a parte fra Cionfoli, per cui difficilmente riusciremo a bucare con fenomeni virali. Però l’esigenza c’è e dei segnali pure».
Per la verità, l’esigenza di usare internet, da parte della Chiesa nelle sue articolazioni, c’è stata fin dagli esordi del web. Però non si sono viste cose strepitose…
Gli operatori ecclesiali del web, che si incrociano spesso anche a livello nazionale, ci riflettono spesso: noi abbiamo la sensazione che sia passato il periodo dell’euforia, che è durato una decina d’anni, dal 2000 al 2010, e che vedeva un utilizzo massiccio di questi strumenti anche in ambito ecclesiale.
E poi?
Poi, passata l’euforia, non c’è stata una stabilizzazione nell’uso degli strumenti e nemmeno esperienze così di rilievo da suggerire un investimento. Anche perché non sono cresciuti di pari passo la professionalità e l’impegno degli operatori.
Come si spiega questa sorta di disillusione?
È dovuta al fatto che si sperava di fare tanto con poco, che gli ordini religiosi speravano di aumentare il numero di vocazioni solo perché erano sul web e via dicendo…
E adesso?
Adesso c’è un riorientamento: nell’ultimo incontro dei direttori delle Comunicazioni sociali del Triveneto, per esempio, si è deciso di concentrarci per il prossimo periodo sul locale: cioè su come offrire servizi a parrocchie e vicariati nell’ambito del web.
Ma per farlo bisogna avere delle competenze, una continuità d’azione, investimenti nella formazione delle persone…
Sì. E qualche segnale in questo senso è emerso, anche nell’ultimo incontro triveneto. Speriamo anche che i nostri vescovi dedichino presto attenzione a questo capitolo del tema della comunicazione.
Condivide che, così come è in crescita e in fermento l’esperienza social di giovani e adolescenti, è opportuno che la Chiesa vi si impegni, con creatività e con il proprio stile?
Sì. A Padova – ma è solo un piccolo esempio – un gruppo di giovani di una parrocchia ha messo in piedi una web serie. I protagonisti sono ragazze e ragazzi di una parrocchia, che guardano un sacco di Netflix (film e serie tivù via web, ndr) e, in maniera un po’ artigianale ma frizzante, hanno messo in piedi Candy Cam, la storia di un gruppo di sei giovani che si ritrovano davanti a un distributore automatico installato in patronato parrocchiale. In sketch di neanche due minuti raccontano il Sinodo dei giovani. La sceneggiatura l’hanno scritta i ragazzi stessi; penso che ci sia solo di che esser contenti per questi esperimenti. Chi vuole vedere questa web serie cristiana la trova in Youtube sotto Candy Cam.
E quali sono i segnali buoni cui accennava, che rompono il clima un po’ stantìo?
Un mese fa ero a Rimini al Web marketing festival. C’ero stato anche l’anno scorso e avevo visto passare solo comici della riviera romagnola. Quest’anno c’era una serie di soggetti che hanno portato la loro esperienza e ci hanno sorpreso, di fronte a seimila operatori del mercato, tutti distanti dai nostri ambienti ecclesiali.
Per esempio?
Per esempio arriva un gruppo di immigrati che, sotto la guida del regista Martino Lo Cascio, ha messo in piedi uno spettacolo teatrale: fanno vedere un video con una barca e un Cristo che li aiuta a sbarcare sulle coste. Poi loro, i migranti, sul palco cantano e creano un momento potentissimo di domanda fra tutte quelle persone venute lì a portare a casa i segreti per fare successo su instagram e guadagnare quattrini, tutti operatori che hanno pagato dai 150 ai 400 euro per iscriversi al festival.
E poi?
Mi ha sorpreso Juan della Torre, il direttore di Machi, l’agenzia argentina che fa “Il video del Papa”. Un’iniziativa che ha come obiettivo di diffondere le intenzioni di preghiera riguardanti le sfide dell’umanità attraverso un video al mese con protagonista Papa Francesco, facendo così del digitale e di internet i canali chiave per affrontare temi importanti e di attualità.
Perché Juan della Torre è stato sorprendente?
Perché ha spiegato come è nato “Il video del Papa”. Della Torre è un pubblicitario di Buenos Aires; un giorno incontra Papa Bergoglio e gli propone di fare uno spot televisivo, una volta al mese. Una cosa fatta bene, visto che ogni video gli costa 5 mesi di lavorazione tra raccolta dell’intenzione di preghiera, sceneggiatura, passaggio per la pontificia segreteria della comunicazione… In Italia questo spot che va su Youtube è poco conosciuto, ma nel mondo ha successo: 14 milioni di visualizzazioni.
La qual cosa, tornando a noi, cosa fa pensare?
Che ci sono dei fenomeni da cui trarre spunto. Noi facciamo fatica a fletterci su cose del genere, siamo abituati ai contenuti di spessore. Eppure dovremmo imparare a semplificare per viralizzare, senza perdere la sostanza. Abitando bene il web.
Giorgio Malavasi