Mancanza di flessibilità nelle aziende, welfare pubblico insufficiente, discriminazioni sul posto di lavoro. Dietro il calo delle nascite, dietro i dati statistici, c’è una realtà fatta di famiglie – e madri in particolare – che non trovano alcun supporto in quella che si chiama conciliazione tra lavoro e famiglia. E che porta molte donne a rinunciare al lavoro e tante altre a pensare seriamente di rinunciare a fare una famiglia.
Le difficoltà riguardano tutti i livelli e tutti i tipi di azienda: le impiegate delle piccole e medie imprese, le addette della grande distribuzione, le manager di multinazionali…
«Alla nascita del primo figlio le lavoratrici dichiarano la loro difficoltà a mantenere il lavoro. Alla nascita del secondo figlio arrivano molto spesso a preferire le dimissioni»: Silvia Cavallarin è Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Venezia dal 2017 e il suo ufficio rappresenta un osservatorio del fenomeno a partire dalle questioni concrete, dai casi di chi, dopo aver tentato varie strade, si rivolge alla Consigliera di parità per provare a mantenere quel posto di lavoro, cercando di conciliarlo con le esigenze familiari, respingendo forme più o meno esplicite di discriminazione. «In media conto circa tre casi al mese, ma chi arriva qui è, diciamo così, all’ultima spiaggia». E’ insomma la punta di un iceberg molto più ampio. A fronte di chi prova ad opporsi a queste dinamiche, ci sono purtroppo tante altre lavoratrici che rinunciano al loro posto: circa due terzi delle dimissioni volontarie sono da parte di donne, quasi sempre per ragioni di conciliazione con la famiglia, per mancanza di welfare. Mentre nei casi di dimissioni degli uomini si tratta quasi sempre di un cambiamento lavorativo, da azienda ad azienda. «Purtroppo lo vediamo proprio dall’analisi delle dimissioni volontarie degli ispettorati del lavoro, che sono dati pubblici», commenta la Consigliera: «Non c’è un’organizzazione del lavoro flessibile, ci si scontra con una rigidità totale da parte delle aziende. E mancano i servizi di welfare, a cominciare dagli asili nido. Così la gestione tra vita e lavoro diventa difficile».
Orari che non coincidono. Spesso la richiesta di un orario di lavoro part time è obbligata dal momento che, dove ci sono, gli asili e le scuole chiudono tra le 16 e le 17. «Ma non è solo questo il problema. Gli orari di lavoro, penso ad esempio alla grande distribuzione, non coincidono per nulla con quelli della scuola. Mi è capitato il caso di marito e moglie entrambi addetti in un reparto di un grande supermercato dove il lavoro inizia alle 6,30. O altri casi in cui c’erano dei turni di lavoro inconciliabili. Però in queste situazioni basta sedersi ad un tavolo, insieme al responsabile delle risorse umane, per trovare delle soluzioni. Diciamo che con la grande distribuzione uno dei problemi più frequenti riguarda le aperture domenicali. Poi – prosegue la Consigliera di Parità – ci sono le tante situazioni in cui manca la rete di supporto familiare. Ci sono lavoratrici non venete che arrivano qui perché hanno vinto un concorso, ma pur a fronte di una buona retribuzione non ce la fanno a pagare anche una baby sitter».
Un benefit o no? Così si arriva alle dimissioni volontarie che, se vengono date entro il primo anno di nascita del bambino, danno diritto all’indennità di disoccupazione e al pagamento del mancato preavviso. Una sorta di benefit che non fa altro che incentivare la scelta di rimanere a casa: «Questo è vero, ma in mancanza di alternative non mi sento di condannare questo beneficio. Il problema, appunto, è la mancanza di alternative. Anche se devo dire che la Regione Veneto in questi ultimi due anni ha messo in campo alcune importanti iniziative, tra cui il bando Pari per abbattere alcuni stereotipi e promuovere un cambio di mentalità. C’è ora un registro per certificare che le aziende promuovano la parità di genere, anche nell’organizzazione del lavoro. Ad esempio: perché le aziende devono per forza indire delle riunioni nel tardo pomeriggio? Dove è scritto?».
Il demansionamento. Di fronte a certi ostacoli posti dalle aziende, c’è chi addirittura si pente di aver creato una famiglia. «Mi sono trovata di fronte delle donne che mi hanno detto: “Se sapevo che era così, il figlio non lo facevo”. E questo vale anche nei casi di carriere ad alto livello, anzi forse ancora di più», prosegue Cavallarin. «Mi è capitato il caso di una manager che ha fatto carriera, passando tutti gli step e poi, arrivata a 40 anni, ha sentito il desiderio di avere un figlio. Ma una volta tornata al lavoro non ha più trovato il suo posto, è stata fatta ritornare al gradino più basso. E’ vero che la legge non lo consentirebbe – sottolinea la Consigliera di parità – ma purtroppo viene fatto, adducendo mille ragioni. Ad esempio il fatto che una neo mamma non è più disponibile alle trasferte: si trovano molti modi per demansionare nei fatti, rispettando almeno formalmente le regole. Chi subisce però è mortificato, soprattutto dopo che ha sacrificato molto della sua vita per l’azienda…». Questo accade nel privato, ma anche nella pubblica amministrazione si incontrano numerose resistenze: «La flessibilità non è scontata, c’è un’organizzazione di stampo verticistico, dove conta il timbrare il cartellino, che non favorisce questa flessibilità».
Qualche caso, fortunatamente, si conclude in modo positivo: «Ricordo una lavoratrice che dopo aver avuto due gemelli, si era licenziata. E una volta che i bambini sono diventati più grandi ha tentato di rientrare ma la sua mansione prevedeva dei turni di notte e non era possibile. In questo caso, confrontandoci con il direttore delle risorse umane, si è trovata una soluzione con un cambio, minimo, di mansione. E lei è tornata felicemente al lavoro».
In generale, però, va cambiato il modello organizzativo, rimarca Silvia Cavallarin: «La maternità va considerata una risorsa, non un ostacolo». Ma nel caso delle piccole aziende, dove gli addetti sono pochi, un’impiegata in maternità può creare grossi sconvolgimenti organizzativi. Ecosti aggiuntivi. O almeno questo è ciò che si sente dire dai datori di lavoro… «Non è così. Le aziende hanno tutto il tempo per organizzarsi, per trovare qualcuno in sostituzione e per fare affiancamento. Senza che abbiano dei costi in più. Solo che pensano che le loro lavoratrici, una volta avuto il figlio, non avranno più lo stesso tempo da dedicare al lavoro. E qui torniamo alla questione del welfare, dei servizi che non ci sono. Ma ci sono anche delle opportunità che andrebbero colte: ad esempio per le piccole aziende ci sono i contratti di rete, aziende che possono mettersi in rete per garantire dei servizi, ad esempio gli asili aziendali. E poi ci sono le risorse messe in campo dal Pnrr: è una sfida da cogliere perché riguarda proprio l’aumento delle strutture di welfare».
L’alternativa è l’inverno demografico: quanto costerà al tessuto economico dei prossimi anni l’assenza di bambini?
Serena Spinazzi Lucchesi