Tanti sacerdoti si occupano di realtà “silenziose”, fatte di luoghi e persone che, pur essendo proprio davanti ai nostri occhi, spesso “scompaiono” alla nostra vista, finendo quasi con il dimenticarci di loro, finché qualcosa di eclatante non accade. Eppure, anche in questi luoghi, c’è sempre una presenza, quella del sacerdote. Una presenza gratuita, che non conosce festività ed orari e che è resa possibile anche grazie alla vicinanza dei fedeli ai propri sacerdoti con le firme dell’8xmille e le donazioni liberali. Tra questi luoghi, c’è anche la Casa Circondariale di Gorizia (nella foto), presso la quale – ormai da molto tempo – presta il suo servizio come cappellano don Paolo Zuttion.
Don Paolo, qual è in questo momento la situazione all’interno del Carcere di Gorizia? Quali attività sono state riavviate?
Dopo la “fase Covid”, da qualche tempo sono state riavviate un po’ tutte le attività che erano state molto ridotte. Non c’era per esempio la possibilità che i volontari accedessero all’interno della struttura; la mancanza del loro grande aiuto si è sentita molto, soprattutto per quanto mi riguarda perché ho dovuto, lungo tutto il periodo, sopperire alle attività solitamente messe in atto da loro. Questi volontari fanno parte del Rinnovamento nello Spirito e vengono ogni domenica ad animare le due eucarestie che si svolgono all’interno del penitenziario (…). In questo i volontari sono un grandissimo aiuto perché, oltre ad animare, cantare, aiutare, è bella la presenza del territorio, di persone che appartengono alla diocesi e che vengono all’interno del carcere. I detenuti hanno sentito la mancanza di questa presenza esterna, credo sia anche per loro molto importante. Oltre a questo i volontari si occupano anche dell’attività di distribuzione del vestiario e dei beni per l’igiene personale. Quest’attività è ripresa dopo un lungo periodo in cui non poteva essere svolta dai volontari e me ne occupavo io: questo per me è molto importante, non solo per l’aiuto ma anche perché è testimonianza viva di una presenza esterna dentro le mura del carcere. È ripresa anche l’attività del laboratorio di teatro. Tempo fa si è svolta una rappresentazione teatrale, sostenuta anche dalla Caritas diocesana di Gorizia, che fa parte di un’attività che la compagnia Fierascena persegue ormai da diversi anni con un laboratorio di teatro sociale all’interno del carcere. Anche attraverso momenti di confronto e dibattito con il Festival “Se io fossi Caino”, che propone testi teatrali e non solo, anche questo sostenuto da Caritas diocesana. Tirando le somme, quindi, è un momento di ripresa per il carcere goriziano.
Quali sono le prospettive per questa struttura, verso quale Carcere ci si sta orientando? Quali sono però anche i bisogni, le necessità?
Il Carcere di Gorizia ha bisogno innanzitutto di creare attività che formino le persone. Il problema principale è proprio che non ci sono grandi attività: pertanto le persone vivono gran parte del loro tempo nell’ozio, cosa che non è assolutamente riabilitativa. Viene meno la funzione della pena, come dice la Costituzione, di essere riabilitativa, ossia di far sì che la persona ritrovi sé stessa e uno stato di vita per cui possa vivere in società, in relazione con gli altri. Questo purtroppo non accade: vedi anche la grande percentuale di ritorni al carcere di coloro che sono usciti, problema non solo del Carcere di Gorizia ma generale. Secondo me andrebbero create possibilità sia lavorative, sia di formazione al lavoro. Per quanto riguarda il carcere di Gorizia, è stata acquisita da parte del Ministero di Giustizia una parte limitrofa, l’ex scuola “Pitteri”. Lì potrebbero trovare spazio anche dei laboratori e dei luoghi per una formazione dal punto di vista professionale di queste persone (…) Si parla molto della riforma Cartabia, che mira a far sì che il carcere diventi l’estrema ratio, prevedendo delle misure alternative con le quali il reo possa in qualche modo trovare, o ritrovare, la strada giusta per la sua vita. Queste misure alternative sarebbero anche uno “svuota carcere”: ricordiamo che in Italia le carceri hanno circa 20 mila persone in più rispetto alla capienza prevista (siamo a circa 60 mila detenuti rispetto i 40 mila previsti). Un modo per “svuotare” le carceri è anche quello di implementare le misure alternative, che però hanno bisogno di strutture esterne e un’organizzazione che, per il momento, non vedo e non so se ci sono intenzione, mezzi e possibilità di creare. Ci sarebbero poi tanti altri problemi da affrontare: c’è per esempio un’alta percentuale di detenuti che presenta problemi dal punto di vista psichiatrico e per i quali probabilmente una struttura carceraria non è la più idonea per scontare la detenzione. Si tratta anche di rivalutare le forme con cui far scontare una pena.
Lei ricopre il ruolo di Cappellano ormai da diverso tempo. Cosa significa per lei quest’incarico?
Sono tanti anni, più di dieci, che mi occupo del carcere. Per me è un confronto continuo con questa realtà, fatta di uomini che vivono momenti di sofferenza. Perché il carcere è sempre una sofferenza, una privazione della libertà, innanzitutto, e degli affetti ma anche il dover vivere insieme ad altre persone che non hai “scelto”. La mia missione è quella di essere accanto a queste persone in questa situazione, con tutti i loro limiti, i loro difetti, i loro peccati. Però restano sempre persone, fatte a immagine e somiglianza di Dio. Come ci dice il Papa, sono Gesù Cristo. Ho avuto ed ho tante esperienze nell’incontro con queste persone; ciò fa sì che, anche per me, ci sia un motivo di cambiamento e conversione del mio cuore e rende possibile il non giudicare (…). Questo è un po’ lo spirito che cerco di tener presente nella mia attività all’interno di questo carcere.
Selina Trevisan