«La cura shock per la natalità in Italia? Esiste ed è semplice: da qui ai prossimi 5 anni portiamo le politiche per i giovani e le politiche familiari ai livelli delle migliori eccellenze europee», spiega Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica dell’Università Cattolica di Milano, autore di numerosi libri sul tema dell’andamento della popolazione italiana e coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo che ogni anno pubblica il “Rapporto giovani”, commentando l’ultimo rapporto Istat sulla situazione demografica del Paese che evidenzia una situazione di grave denatalità.
«Guardiamo alla Germania dove per ogni nuovo nato vengono dati 250 euro al mese fino all’età adulta. Poi rendiamo i servizi per l’infanzia, gli asili nido, un diritto per tutti. In Svezia e in Francia la copertura dei servizi per l’infanzia è superiore al 50% – continua Rosina – che vuol dire che più della metà dei bambini ha il posto al nido, mentre in Italia la copertura è appena al 30%, con forte differenze territoriali. Da noi le coppie vivono nell’incertezza e spesso la mamma deve lasciare il lavoro perché o non trova il nido o costa troppo. Poi ci sono paesi come la Spagna che si è mosso più recentemente, ma anche i paesi scandinavi che lo fanno da più tempo, in cui i congedi di paternità e maternità sono praticamente sullo stesso livello. Cioè se arriva un figlio, che sia la madre o il padre a prendere il congedo è praticamente indifferente perché godono delle stesse condizioni. Con maggior possibilità di collaborazione all’interno della famiglia, con più possibilità di organizzarsi meglio e con i genitori che possono avere figli e lavorare entrambi. Quindi con possibilità di avere un secondo reddito e difendersi dal rischio di povertà, avendo nel contempo entrambi più tempo da trascorrere con i figli. A beneficio del valore della paternità oltre che della maternità. Su tutti questi aspetti in Italia facciamo di meno rispetto agli altri paesi».
Rispetto alla cura shock, c’è anche quello che possono fare le aziende…
Si. Per esempio: il part time in Italia in grande maggioranza è imposto dalle aziende per pagare di meno i lavoratori, mentre nel resto dell’Europa gran parte del part time è scelto dai lavoratori quando hanno esigenze di conciliazione. Ed è una misura reversibile: quando non ne hanno più bisogno tornano a fare il tempo pieno. Negli altri paesi è un’effettiva misura che aiuta i lavoratori e le famiglie a conciliare i tempi di vita e di lavoro, mentre in Italia è utilizzato per contenere il costo del lavoro. E ovviamente bisogna investire nelle politiche abitative, per dare ai giovani la possibilità di conquistare prima un’autonomia dai propri genitori, avendo un salario adeguato e costi per gli affitti abbordabili. Se noi agiamo in questa direzione, miglioriamo il Paese perché miglioriamo la condizione dei giovani, delle donne, delle famiglie.
Professor Rosina, cosa l’ha colpita di più del recente rapporto Istat?
L’aspetto più rilevante del rapporto è che la fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, continua a diminuire. Questo è ciò che complica di più il quadro italiano e vuol dire sempre meno nascite anche in futuro perché continua a ridursi non solo il numero medio di figli per donna ma anche il numero stesso delle donne che possono partorire, così come quello delle coppie in età riproduttiva. Sempre meno nascite poi comportano un sempre più grave squilibrio futuro. I dati dicono che continuiamo a non essere in grado di invertire la tendenza. Anzi che peggioriamo. Altro elemento preoccupante è l’aumento dei cittadini italiani che vanno all’estero, soprattutto giovani. E questo accentua il processo di de-giovanimento della popolazione, che è l’aspetto più preoccupante. Il negativo non sta nell’allungamento della vita, anzi, ma nel fatto che noi abbiamo meno giovani di tutti in Europa; di conseguenza si riduce la popolazione in età lavorativa, il che va a ridurre chi paga tasse e contributi, che a cascata va a ridurre le risorse che possono essere utilizzate per il welfare, non solo soldi ma anche persone che possiamo impiegare nei servizi per i cittadini. E questo renderà l’invecchiamento sempre più difficile da sostenere.
Gli italiani sono una “specie a rischio estinzione”? Come si configurerà la popolazione italiana nel 2050?
Se non cambiano le cose nel 2050 non è che saremo estinti, saremo implosi. Cioè andremo verso una struttura demografica che non può reggere perché, con una forte crescita di popolazione anziana e una consistente riduzione della popolazione in età lavorativa, avremo meno capacità di creare benessere e crescita, meno possibilità di pagare le pensioni e di fornire cura e assistenza alla popolazione anziana. Ma se dovremo aumentare le risorse per pagare le pensioni e per fornire cura e assistenza alla popolazione anziana, avremo ancora meno risorse da investire sulla formazione, sulle politiche attive del lavoro, sulle politiche abitative, sulle politiche familiari. E quindi sarà tutto il paese che andrà ad impoverirsi, cioè ad implodere. A quel punto i giovani faranno la scelta più semplice, prima ancora del 2050: se ne andranno in massa.
Esiste una soglia annua di nuovi nati critica sotto la quale non avremo più speranza di invertire la rotta?
In realtà il punto di non ritorno dipende anche da altre cose, non solo dal numero di nuovi nati. Per esempio dal tasso di immigrazione. Il rischio è quello di trovarci prima o poi con un rapporto di uno a uno tra pensionati e lavoratori, cioè di avere lo stesso numero degli uni e degli altri, che è del tutto insostenibile dal punto di vista economico e sociale. Non possiamo permetterci di arrivare ad una situazione per la quale gli squilibri sono tali che a fronte di una popolazione anziana che aumenterà, la popolazione al centro della vita attiva sarà così indebolita da non poterne reggere l’urto. Nessuno allora, se potrà andarsene, rimarrà in un Paese con uno squilibrio di questo tipo.
Se invece si riuscirà a invertire il trend?
Se torniamo ad investire sui giovani, quegli stessi giovani si troveranno con più opportunità di formazione, di inserimento nel mondo del lavoro, di salari adeguati e di valorizzazione. Perché le aziende e le organizzazioni ne hanno bisogno, hanno bisogno dell’energia dei giovani. Quindi se imbocchiamo il sentiero giusto, trasformando la riduzione quantitativa dei giovani in un maggiore investimento su di loro, come tutte le cose che nel mercato sono rare saranno più preziosi, più ricercati e più valorizzati. Ma finora non è stato così e il rischio è quello di avvitarsi sempre di più verso il basso. A quel punto un giovane dirà “Se trovo più opportunità (lavoro, salario…) all’estero, perché devo rimanere qui in Italia con il debito pubblico che c’è, con gli squilibri demografici accentuati, senza un Paese che investe su di me, che mi mette al centro come generazione in un percorso di nuovo di sviluppo in cui le nuove generazioni sono protagoniste?”.
La popolazione in età attiva va riducendosi costantemente da oltre vent’anni. Quali sono le implicazioni per il Paese oggi?
C’è più consapevolezza adesso, perché fino a 10 anni fa sostanzialmente il tema demografico non si poneva. L’idea, a titolo d’esempio, era questa: ci sono pochi bambini? Vuol dire che risparmieremo sulle scuole e sugli insegnanti. Il problema è che ora quei pochi bambini sono diventati poche persone che entrano nel mondo del lavoro. E con ciò sono aumentate le aziende che non trovano manodopera, l’economia comincia a non funzionare, l’Inps comincia a non avere le entrate necessarie per rendere sostenibili i conti. Le cose stanno cambiando perché appunto la demografia sta mordendo l’economia, la vita delle aziende e le finanze pubbliche. E quindi ormai è chiaro che serve un atteggiamento diverso, più consapevolezza e introdurre scelte di lungo periodo e condivise.
Sembra che la miopia politica su questi aspetti sia realmente bi-partisan. Cosa manca ai nostri governi, siano essi di destra o di sinistra?
La politica italiana non ha una visione generazionale nelle misure che mette in campo. Che significa misurare le politiche in funzione di come cambiano il Paese da qui ai prossimi vent’anni, cioè il tempo che serve per diventare autonomo e adulto ad un bambino che nasce oggi. Mentre la politica italiana ha un orizzonte temporale che arriva fino alla prossima tornata elettorale, addirittura alla prossima finanziaria, orizzonte che è troppo breve rispetto alle scelte che le famiglie fanno in riferimento ai figli. Non siamo un paese che programma per tempo. Cosa che consentirebbe invece di avere una demografia migliore, paradossalmente anche in riferimento a pensioni e sanità come abbiamo già detto. Una prospettiva generazionale consente alle famiglie di vivere in un contesto di stabilità. Invece quello che facciamo è navigare a vista. Ogni anno guardiamo quanti soldi si liberano per questi temi in finanziaria dopo aver utilizzato tutte le risorse in qualsiasi altro ambito. Non ce lo possiamo più permettere.
Fabio Poles