Una nuova arma contro la malattia di Alzheimer dovrebbe approdare, probabilmente il prossimo anno, anche in Veneto. È di pochi giorni fa, infatti, l’approvazione, da parte della Food and Drug Administration, di un nuovo farmaco per la cura della malattia, l’Aducanumab, che rappresenta una grossa novità nel trattamento della forma più comune e devastante di demenza del mondo occidentale, descritta per la prima volta, nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer.
«È un anticorpo monoclonale della Biogen – chiarisce Rocco Quatrale, primario di Neurologia all’ospedale dell’Angelo di Mestre e direttore del dipartimento di Scienze neurologiche dell’Ulss 3 Serenissima – che agirebbe non tanto sui sintomi, ma sui processi che sono alla base dello sviluppo della malattia, riducendo gli accumuli di proteina beta-amiloide che sono implicati nella patogenesi dell’Alzheimer e che contribuiscono alla degenerazione dei neuroni cerebrali. Gli studi clinici sugli effetti del farmaco su pazienti che presentavano un decadimento cognitivo lieve erano stati interrotti nel 2019 per l’inefficacia del farmaco nel ridurre clinicamente il declino cognitivo. Successivamente un’ulteriore analisi dei dati condotta dalla Biogen avrebbe documentato un rallentamento del declino cognitivo, ritenuto statisticamente significativo, nel sottogruppo di pazienti che aveva ricevuto la dose più alta di Anticorpo monoclonale». Finora i farmaci sperimentati contro l’Alzheimer dal 2003 hanno avuto effetti sempre limitati o insoddisfacenti e al più ritardano per un certo tempo il peggioramento dei sintomi. Adesso invece arriva questa nuova terapia.
«Sappiamo che lo sviluppo della malattia – sottolinea Livia Gallo, responsabile del CDCD neurologico dell’Ospedale dell’Angelo – è molto lento e le evidenze scientifiche dimostrano che gli accumuli di amiloide iniziano decine di anni prima dell’esordio clinico dei primi sintomi». «E’ auspicabile che somministrando il farmaco in una fase prodromica e inizialissima di malattia si possa rallentare il danno irreversibile delle popolazioni neuronali colpite. È una terapia molto mirata che sarebbe in grado di contrastare, nei pazienti con decadimento cognitivo lieve, il depositarsi nel cervello dell’amiloide, che rappresenta uno dei fattori che contribuisce alla morte dei neuroni e causa la progressiva perdita delle capacità cognitive. Bisogna peraltro sottolineare che lo stesso farmaco, testato su pazienti con Alzheimer conclamato, in fase avanzata, non è riuscito a ridurre i depositi di beta amiloide nel cervello né a produrre effetti clinici apprezzabili».
C’è quindi ancora prudenza. L’istituzione americana che vaglia i nuovi farmaci ha infatti precisato che gli studi presentati non hanno fornito prove complete di efficacia: ha perciò approvato l’Aducanumab solo a condizione che l’azienda produttrice effettui un nuovo studio clinico che confermi che la riduzione di placche amiloidi, dimostrato con l’uso del farmaco, si traduca in comprovati benefici sul piano cognitivo. Tale beneficio clinico dovrà essere dimostrato in una sperimentazione “post-marketing”: Biogen ha fino a nove anni di tempo e se questa terapia si dimostrerà inefficace, l’FDA potrà ritirare l’approvazione. Nel frattempo, però, il medicinale sarà comunque dispensato ai pazienti. Bisognerà prestare attenzione non solo ai suoi esiti clinici ma anche alle complicanze, come l’edema cerebrale che accompagna, in circa il 40% dei pazienti testati, la somministrazione del farmaco. Ora, dopo il via libera dell’ente degli Stati Uniti, l’Aducanumab sosterrà l’esame dell’EMA, e in caso di riscontro positivo ci potrà essere l’approvazione dell’italiana AIFA.
«E’ doveroso sottolineare – precisa il primario Quatrale – che con questa nuova terapia non si cura chi è già ammalato ma, ci si augura, chi potrà ammalarsi. Il farmaco ha dimostrato di poter ridurre le placche amiloidi nelle fasi assolutamente iniziali e prodromiche di malattia, anche se i risultati dei trials clinici sono ancora purtroppo contrastanti sulla reale possibilità di produrre un beneficio clinico. E’ indubbio che lo sforzo dei ricercatori dovrà concentrarsi su strumenti che permettano una diagnosi particolarmente precoce della malattia così come sullo sviluppo di terapie mirate non solo contro la beta amiloide ma anche contro altri target molecolari alla base della malattia, come la proteina tau». «Una diagnosi accurata e veloce all’Ospedale dell’Angelo – puntualizza il direttore generale dell’Ulss3, Edgardo Contato – si pratica già da un triennio grazie ad un approccio clinico e neuropsicologico assai accurato, a indagini liquorali e neuroradiologiche raffinate e ad una una nuova tecnica diagnostica di medicina nucleare: la PET con amiloide. È una tecnica in uso presso il reparto guidato dal dottor Roberto Mameli che permette, grazie all’uso di sostanze traccianti, di riconoscere la presenza dell’amiloide nel cervello e contribuire al complesso inquadramento in fase precoce del decadimento cognitivo». (G.M.)