Tutto è partito dalle chiacchierate del giovedì alla Casa di Amadou. Qui, nello spazio offerto alla Cita da don Nandino Capovilla, i ragazzi stranieri in procinto di ottenere un permesso (di soggiorno o di protezione umanitaria), hanno modo di confrontarsi, di parlare tra loro, di sentirsi un po’ più “a casa”, grazie anche alla presenza di alcuni volontari. Da quelle chiacchierate emergeva di continuo un problema: «Una volta ottenuto il permesso, i ragazzi escono dal sistema di accoglienza istituzionale e devono trovare il modo di mantenersi da soli, con un lavoro e un alloggio. Ma non è semplice», spiega Betta Tusset, che fa parte di Casa di Amadou (nel frattempo diventata associazione) e che, in risposta a queste sollecitazioni, ha avviato il progetto Jumping. Il tutto grazie una proficua triangolazione con l’Austria. Qui ha sede la Fondazione Kahane che ha accolto, vagliato e infine finanziato il progetto. «La Fondazione – racconta – è stata creata da una famiglia austriaca negli anni ’90 e da allora finanzia in tutto il mondo progetti sociali». L’incontro è stato casuale, grazie a una presentazione a Venezia del libro sulla Casa di Amadou, alla quale era presente un membro della famiglia Kahane: «La figlia si è interessata a noi e ha ipotizzato la possibilità di finanziarci», racconta Betta che ha dunque elaborato il progetto di orientamento, promozione, ma anche accoglienza temporanea di giovani stranieri: il tutto sintetizzato dalla parola “jumping”, per indicare il “salto” da compiere una volta ottenuto il permesso. Perché quello non è il traguardo, ma è solo il punto di partenza.
Il primo progetto di sei mesi. Il primo progetto, della durata di sei mesi, è terminato proprio in questi giorni e ha riguardato 10 giovani, tutti intorno ai vent’anni, di provenienza africana. A loro è stato offerto l’alloggio, ma soprattutto hanno ricevuto gli strumenti adeguati per “spendersi” nel mondo del lavoro. A cominciare dall’apprendimento della lingua italiana, grazie alla partnership con il Centro di lingua e cultura italiana della diocesi, che offre corsi linguistici a Mestre. «E’ prevista una frequenza assidua, quasi quotidiana, e così si ottengono risultati ottimi in breve tempo». La lingua è il primo mattone: «Purtroppo molti ragazzi, ospiti nei centri di accoglienza più grandi, come quello di Cona, che ora è stato chiuso, pur essendo nel nostro territorio da anni, parlano pochissimo l’italiano, perché non hanno avuto la possibilità di apprenderlo». La casa è l’altro “mattone”. I dieci ragazzi sono stati alloggiati in due appartamenti, presi in affitto regolarmente dall’associazione: «Uno è al Lido, affittatoci da una famiglia trovata attraverso conoscenze in parrocchia. L’altro a Malcontenta, trovato tramite agenzia. Va detto che sono davvero pochi i privati disposti ad affittare agli stranieri. Nel caso del Lido, la famiglia è entrata in contatto con i ragazzi e si è sviluppato un bel rapporto». In appartamento i ragazzi si arrangiavano di tutto e questo ha contribuito a sviluppare la loro autonomia. Erano però seguiti costantemente dalle due referenti del progetto: Betta Tusset e Marta Battistella. La sede di Jumping è in via Piave e non è un luogo casuale, viste le difficoltà di convivenza, ma anche le tante iniziative messe in campo dalla gente del quartiere. Nella sede c’è un ampio spazio per incontri pubblici e in questi mesi sono state ospitate anche altre associazioni (è in corso DonnArte, una mostra realizzata al termine di un laboratorio multietnico) in uno scambio reciproco di esperienze e umanità.
Attitudini da sviluppare. Qui i ragazzi del progetto hanno individuato con le due referenti i percorsi da intraprendere per trovare un lavoro, in linea con le proprie attitudini e capacità. Sono stati fatti numerosi colloqui, è stato spiegato loro come attivarsi nella ricerca. Perché il progetto punta prima di tutto a renderli autonomi, capaci di districarsi nel nostro mondo, tra burocrazia, annunci di lavoro e, purtroppo, tanta diffidenza. Alla fine sono stati avviati i tirocini lavorativi: tre nell’edilizia grazie al Ceve, Centro Edili Venezia, due nell’agricoltura biologica, uno nel campo della panetteria (grazie al Mulino Quaglia di Padova), mentre quattro ragazzi hanno “studiato” da aiuto pizzaioli. I tirocini sono stati co-finanziati dall’associazione e hanno prodotto i risultati sperati. «Sei ragazzi hanno iniziato ora a lavorare, con un contratto. In qualche caso è solo stagionale, ma è un primo passo», spiega la referente. Gli altri stanno concludendo il tirocinio e si spera possano ottenere lo stesso risultato positivo. Per loro il progetto è concluso, anche se avrà un’appendice: «Alloggeranno per altri sei mesi in due appartamenti trovati grazie ai contatti dell’associazione. Pagheranno l’affitto, ma diversamente non avrebbero trovato alloggio, proprio per la diffidenza di cui si diceva».
Un nuovo finanziamento per nove mesi. E il progetto riparte: la fondazione Kahane ha finanziato un nuovo progetto, stavolta della durata di nove mesi, accogliendo la richiesta dell’associazione di lavorare per più tempo con queste persone, in modo da renderle maggiormente autonome. Riguarderà altri dieci ragazzi, in questo caso alloggiati in due appartamenti, uno alla Cita e l’altro a Malcontenta. «Avendo più tempo a disposizione cercheremo di attivare altre competenze, come imparare la gestione del denaro, saper gestire una casa, come cercare attivamente lavoro. Cercheremo inoltre – prosegue la referente – di coinvolgere imprenditori del territorio, perché vengano a parlare del loro lavoro, del loro ambito professionale». «Lo scopo – conclude Betta Tusset – è lavorare oltre l’emergenza della prima accoglienza. Non siamo un’istituzione, ma una semplice associazione di volontariato. In futuro vorremmo che questo progetto si rendesse autonomo, trovando altri finanziamenti. Ci sono competenze e conoscenze da non sprecare. Inoltre, si è creata una bella rete di relazioni con tante realtà cittadine, che generano risorse positive». Solo mettendosi insieme, infatti, si può abbattere il muro della diffidenza.
Serena Spinazzi Lucchesi