No al ripristino del servizio militare obbligatorio. Servire la patria è ben altra cosa che fare obbligatoriamente un anno di lavoro per imparare anche a uccidere.
Lo sottolinea don Nandino Capovilla, parroco della SS. Risurrezione di Marghera, in una riflessione che fa seguito alla proposta di ripristinare, in Italia, l’anno obbligatorio nell’esercito.
«È vero, Signore, non siamo sulla strada giusta». La strada sbagliata, a cui si riferiva papa Paolo VI nel guardare all’umanità e alla sua storia, «è la strada della violenza e della guerra alla quale i popoli, da sempre, hanno affidato lo strumento degli eserciti e del conflitto armato».
La prima cosa infatti che ho pensato sentendo questa incredibile idea di ripristinare la naja obbligatoria è stata che non saremmo proprio sulla strada giusta per il bene dei nostri giovani e del Paese se decidessimo di investire tempo e denaro nel rilanciare “lo strumento dell’esercito”. La consapevolezza di una strada sbagliata è il primo passo che dovremmo fare, verificando la devastazione umana e totale che ogni uccisione e ogni guerra comporta.
Non solo le edicole sono ancora piene di libri sulla prima guerra mondiale (scritta in minuscolo perché erroneamente si continua a chiamarla pomposamente “Grande” guerra, mentre fu disgraziatamente solo una “inutile strage” (Benedetto XV). Ma la memoria di chi la guerra l’ha fatta è piena di appelli a non ripetere davvero più gli errori del passato pensando di costruire la pace con lo strumento della guerra.
Basterebbe chiedere un parere su questa follia dell’obbligo del servizio militare a tutti quelli che sono stati addestrati per uccidere e che hanno visto morire dei fratelli (ma forse non siamo ancora tutti d’accordo che sulla faccia della terra siamo tutti fratelli), perché – va detto e ripetuto – di questo si tratta e questo è l’obiettivo degli eserciti.
Chi lo propone, invece, tira fuori l’educazione, anzi, la “buona educazione” che immaginiamo sia imparare a farsi il letto, obbedire ai superiori, tenersi in ordine la camera e l’uniforme. Questo motiverebbe un enorme investimento economico e morale di tutta la gioventù italiana. Ma “buona educazione” è portare al rispetto dell’altro, maturare attenzione e cura per chi è più svantaggiato, testimoniare l’amore verso tutti, senza se e ma.
Allora il problema non è “il servizio” ma la seconda parola: “militare”. Parola corretta per far capire l’obiettivo degli eserciti: insegnare ad usare le armi e a combattere fino ad uccidere.
«Ma l’esercito è per il bene del Paese!», aggiunge qualcuno. «E la naja è la scelta di un giovane di servire la Patria». Chiediamoci allora cosa significa oggi “servire l’Italia”? Quali esperienze la aiutano a crescere in umanità e dignità? E nel concetto di Patria non ci dovrebbe essere proprio questo?
In parole povere: il militare esiste per imparare a fare la guerra e non per soccorrere i terremotati, come mostrano gli spot nelle scuole dove si reclutano le nuove leve. E la sola idea di “vestire l’uniforme” mi dice cancellazione della coscienza e appiattimento della diversità di ogni uomo nell’uniformità del plotone.
Ritorno della leva obbligatoria? Chiedete un parere alla storia, un altro a chi la guerra l’ha vista e a chi, se fosse vivo, ve lo darebbe: uno dei centinaia di giovani americani che non ce l’ha fatta, la testa è esplosa dopo aver dovuto sparare e uccidere. I militari Usa suicidatisi in Iraq sono stati molti più di quelli uccisi nei combattimenti. Cosa è successo nella mente e nel cuore di quei giovani per portarli a suicidarsi?
Lo diceva candidamente Giovanni Paolo II: «Le esigenze di umanità ci chiedono oggi di insegnare la pace e non la guerra, anzi di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra. Per coltivare la pace come bene supremo al quale tutte le strategie devono essere subordinate cominciando dalla cultura e dall’educazione delle nuove generazioni».
Don Nandino Capovilla