Se gli si chiede quale sia la qualità di cui si sente oggi il maggior bisogno, Ettore Messina, il top dei coach per la pallacanestro italiana, ha pochi dubbi. «Serve saper parlare ai giovani – afferma – i giovani ci sono e danno speranza, ma vanno intercettati. Su questo la Chiesa, grazie all’operato di Papa Francesco, sta facendo passi importantissimi. Il Santo Padre è una persona che, finalmente, sa parlare ai ragazzi, un modello di comunicazione che dovrebbe essere preso ad esempio, anche nello sport».
E’ davvero un onore parlare con lui: appena sbarcato dall’aereo che lo ha fatto tornare, per pochissimi giorni, a Venezia, quale ospite d’onore dell’università di Ca’ Foscari, alla cerimonia di proclamazione delle lauree in piazza San Marco.
L’attuale vice allenatore del San Antonio Spurs è il primo coach italiano in NBA, fino a settembre 2017 commissario tecnico della Nazionale azzurra. Molti i legami e i punti di contatto con la nostra città, visto che la sua carriera è iniziata nel biennio 1980-82 sulla panchina del Basket Mestre. «Quando mi hanno invitato a partecipare a questa cerimonia – ha raccontato venerdì – ero imbarazzatissimo. Erano anni che non tornavo nella mia università. La mia tesi fu un flop, mi ricordo che il relatore mi disse: non importa, lei farà l’allenatore. Era la mia passione e così è stato».
Da qui è partita la carriera stellare di uno degli allenatori di basket più decorati a livello europeo: ventotto titoli conquistati a livello di club. Tra questi spiccano 4 vittorie in Eurolega, 1 Coppa delle Coppe, 7 Coppe Italia, 4 scudetti in Italia e 6 in Russia.
Tante vittorie, quale la più bella?
Non c’è titolo che tenga, rispetto alla soddisfazione dei rapporti personali con tantissimi giocatori che ho allenato. Non faccio nomi, perché rischierei di dimenticare qualcuno, soprattutto tra i giocatori delle giovanili, magari sconosciuti ai più, che però mi hanno dato soddisfazioni incredibili.
Come valuta la sua carriera?
Sono stato una persona molto fortunata: anzitutto perché ho avuto la gioia di riuscire a fare ciò che sognavo da ragazzo, e poi per i tantissimi straordinari campioni che ho avuto la fortuna di allenare.
Perché oggi un bimbo dovrebbe iniziare a prendere in mano un pallone da pallacanestro?
Il nostro è uno sport bello perché tutti devono saper fare tutto. Non è come il calcio: in una partita di basket ognuno deve essere in grado, e ha l’occasione, sia di difendere che di segnare un canestro.
Segue il nostro campionato?
Purtroppo i tempi della Nba mi portano a poter seguire pochissimo. A livello generale, comunque, mi sembra che Milano sia una corazzata, sia per caratura tecnica dei giocatori, sia per quanto riguarda il potenziale economico della società meneghina. E così quando vince lo scudetto, come quest’anno, si finisce col pensare che abbia fatto semplicemente il proprio dovere. Però poi, ci possono essere anche delle sorprese come Sassari o la Reyer nel 2017, a conferma di come il nostro sia uno sport incerto e avvincente. Nulla è scontato. La crescita di Milano andrà misurata in Eurolega.
Ha parlato della Reyer: come valuta il percorso degli orogranata negli ultimi anni?
Sento la Reyer come una società di casa, vicina ai miei sentimenti. E penso che quanto ha fatto la società, in questi anni, dovrebbe rendere orgogliosi tutti i veneziani. E’ diventata, relativamente in poco tempo, una società modello, non solo dal punto di vista di squadra, ma per il progetto di società che c’è alla base di tutto.
Ha parlato di casa: in molti la considerano un mestrino.
In realtà sono nato a Catania, ma a Mestre, è vero, ho intrecciato alcuni dei rapporti più belli della mia vita. Conoscenze e amicizie che mi accompagnano sempre, che proseguono e crescono al di là dello sport. Questo è ciò che di bello è successo nella mia vita.
Mediamente ogni quanto torna in Italia?
Almeno una volta all’anno cerco di tornare a casa. I tempi dell’Nba rendono, difficile, purtroppo fare di più. Ma quando arriviamo cerchiamo di passare il maggior tempo possibile a Bologna, dove è nata mia moglie, e dove abbiamo i parenti più stretti.
In America come è la situazione ambientale?
San Antonio, da questo punto di vista, è un luogo ideale anche per portarci la famiglia, perché è un posto non troppo grande, rispetto alle altre principali metropoli americane. A volte l’Italia manca, ma lavorare in Nba per un allenatore di basket è un sogno, un’occasione troppo importante.
Rimarrà lì anche per la stagione 2018-19?
Sì.
Quale è l’obiettivo del suo team?
Centrare i play-off. E non sarà una missione semplice. Ci sono almeno dodici squadre, nel nostro raggruppamento, che puntano a raggiungere il nostro stesso obiettivo.
Quando inizierete la preparazione?
Dopo la prima decade di agosto, inizieremo a lavorare a San Antonio.
Un italiano in Nba: quali sono le differenze più importanti che balzano agli occhi?
La differenza fondamentale riguarda soprattutto i palazzetti, le strutture e gli impianti per praticare questo sport. Il nostro Paese ha un gap quasi impossibile da colmare e questo si ripercuote sotto tutti i punti di vista: le grandi squadre, ma anche per l’attività giovanile dei ragazzi. L’Nba è di un altro pianeta rispetto a noi. In Italia ci sarebbe bisogno di nuovi palazzetti, che diventino la casa del basket e delle società. E nessuno più di voi a Venezia, con la Reyer, può comprendere bene l’importanza di questo ragionamento.
E’ fiducioso per il cammino della nostra Nazionale?
Sicuramente sì. Penso che ci qualificheremo per i prossimi Mondiali del 2019.
Cosa si può fare per crescere di più anche a livello federale?
Anzitutto penso sia fondamentale trovare l’amalgama del gruppo azzurro. Perciò un primo accorgimento importante sarebbe quello di riuscire a far giocare i giocatori azzurri, con la Nazionale, in questa prima finestra di settembre.
Ha allenato moltissimi campioni: crede che siano più i giocatori a fare la fortuna degli allenatori, o gli allenatori quella dei giocatori con i loro consigli e insegnamenti?
La maggior parte delle volte sono i giocatori a fare la fortuna degli allenatori, me compreso.
Ripercorrendo la sua giovinezza, che valori le ha trasmesso lo sport?
Il rispetto e le amicizie, quelle vere.
In quali luoghi li ha imparati?
Da bambino, nei patronati. Non c’erano molte alternative, dove poter andare a giocare. Ma il patronato è quel luogo di aggregazione che manca tanto anche oggi». Purtroppo il tempo del viaggio in taxi dall’aeroporto di Tessera è già terminato. Il Canal Grande e piazza San Marco si aprono davanti al coach. «Molti di voi lavoreranno in squadra – ha detto rivolto agli studenti freschi di laurea – ma pensate sempre che poi conta sempre la responsabilità individuale. La lotta non sarà facile: magari verrete superati da chi ritenete inferiori a voi, ma dovete tenere duro e credere in voi stessi e in quanto siete capaci di dare. Se fate bene, potrete pretenderlo anche dagli altri. «Non vi darò il compito e la missione di cambiare il mondo, anche perché spesso chi ve lo dice è lo stesso che l’ha distrutto. Io ho avuto la fortuna di trovare individui che mi hanno offerto opportunità ed è quanto auguro a voi; però le occasioni bisogna anche crearsele: non abbiate paura di rompere le scatole e di farvi avanti, cercando di conoscere bene il vostro carattere, ovvero le vostre caratteristiche. Fidatevi di queste e sviluppatele, senza badare a quello che gli altri dicono di voi. Infine non prendersi troppo sul serio: ‘Ti pagano per far sgambettare dei ragazzi in mutande”, mi disse un amico, facciamo tutti qualcosa che non richiede un talento particolare. Noi adulti abbiamo bisogno del vostro entusiasmo».
Lorenzo Mayer