Trepidazione ed entusiasmo insieme: «C’è l’entusiasmo di vivere la propria vocazione, il proprio ministero. C’è anche la trepidazione di entrare nella verità di me stesso, in ciò che il Signore ha pensato per la mia vita». Sono questi i sentimenti che animano don Steven Ruzza alla vigilia dell’ordinazione presbiterale che si celebrerà in San Marco sabato 23 giugno, alle ore 10.
Steven e Francesco Andrighetti (tra breve un’intervista sempre su genteveneta.it) verranno ordinati sacerdoti dal Patriarca Francesco.
Originario di Caorle, della parrocchia di Santo Stefano, papà e fratello pescatori, Steven ha avvertito la vocazione fin da piccolo. «Sono stato educato alla fede nella mia famiglia, con grande semplicità. Il fatto che stia ricevendo del bene dai miei genitori è un segno grande dell’amore di Dio. Nella mia famiglia – che comprende i genitori, mio fratello, ma anche gli zii e le mie cugine, che per me sono come sorelle – si è sempre vissuta la fede. Mi hanno portato al catechismo, siamo andati a messa assieme, educandomi a come vivere il momento della celebrazione eucaristica, dando molta importanza a questi momenti».
Quando hai avvertito la prima chiamata?
La vocazione è nata fin quando ero piccolo piccolo, quando ho incontrato delle religiose: sia le suore dell’asilo, sia le mie due zie che mi hanno fatto vedere cosa vuol dire dedicare la vita a Dio, mostrandomi che è una scelta bella che porta alla gioia. Invece la vocazione vera e propria è nata dall’incontro con don Giovanni Fattore, il mio primo parroco, un parroco molto amato a Caorle. Per la gente, quando lui passava era come vedere Cristo che passava in mezzo a loro. Questo mi aveva colpito molto, mi aveva affascinato. Lui è morto molto presto, avevo fatto la prima confessione, per la prima comunione è arrivato don Giuseppe Manzato, l’attuale parroco, che ha ridestato in me le prime impressioni che avevo avuto, confermando in me questo piccolo desiderio. Sono davvero grato ai sacerdoti che mi hanno seguito e accompagnato in parrocchia: don Marco Scaggiante, don Claudio Gueraldi, don Francesco Marchesi, preti giovani che mi hanno fatto vedere cosa significa essere sacerdoti. Pur con temperamenti diversi, per tutti valeva la stessa cosa: la vita consegnata a Cristo e vissuta nel servizio alla Chiesa.
Come è cresciuto nel tempo il desiderio di diventare prete?
Ho avuto alti e bassi, ma questo desiderio mi ha sempre interrogato. Ci sono stati dei periodi in cui non volevo più saperne, quando volevo essere io a scegliere e a decidere cosa fare della mia vita. C’era questo interrogativo e mi sentivo in dubbio sul cosa fare, fino a che, al termine dell’università, aiutato da don Francesco, sono giunto a un momento di maturità nel cammino, in cui Cristo era diventata una persona concreta di fronte a me, talmente concreta che ero pronto a consegnargli la mia vita. Quindi è cominciata l’avventura del Seminario, che è stata davvero un’avventura bella: ricordo soprattutto il grande entusiasmo dei primi anni. Ho vissuto tante esperienze e alla fine della giornata sentivo il cuore pieno, il cuore lieto. Questa era la miglior conferma per me e per la mia famiglia. Questo mi ha portato a vivere le sfide successive, in particolare l’inserimento in parrocchia che avviene in modo graduale.
Come ti sei trovato?
In parrocchia ci si confronta con varie realtà, si vivono varie esperienze. Ma in tutto questo ho potuto verificare la certezza che il Signore mi amava e che aveva su di me un disegno grandioso. Una certezza che mi animava e mi anima tuttora.
Cosa fai in parrocchia?
Attualmente svolgo servizio a Jesolo, a San Giovanni Battista. Faccio catechesi, porto la comunione ai malati, lavoro con don Fabio Miotto con il gruppo giovani. Poi c’è la predicazione domenicale, che è un lavoro su di sé non indifferente, prima c’è la preparazione e poi il parlare in pubblico, che non è mai facile… Inoltre insegno religione sia alle elementari, alla terza e quarta elementare alla scuola San Domenico Savio di Oriago, e a Murano all’istituto tecnico Abate Zanetti. Ciò che mi piace delle due scuole è che in entrambe, pur così diverse, c’è un progetto educativo condiviso, tra insegnanti, genitori e ragazzi. E su ogni alunno c’è uno sguardo umano, che mira non solo alla formazione culturale, ma anche alla crescita e alla formazione umana. C’è uno sguardo alla persona.
Come ti vedi come futuro sacerdote? Ti piacerebbe continuare ad insegnare?
Me lo sono chiesto tante volte. Sì, mi piacerebbe insegnare. Non solo religione, ma anche latino (Steven è laureato in Filosofia, ndr). Ho dato la disponibilità al Patriarca per lo studio, ma non fine a se stesso, perché comunque sento il bisogno del legame umano. Anche del rapporto con realtà segnate dalla sofferenza: per quanto difficoltoso, è proprio là che il Signore si manifesta con più forza. Per esempio nel portare la comunione ai malati, trovare persone che vivono di fede e che lottano offrendo questa loro sofferenza, per me vuol dire molto. Vedere come attendono la comunione e con il sacerdote è una testimonianza di fede forte. La sofferenza è ciò che interroga tutti, è il luogo dove gli interrogativi sulla propria vita emergono in maniera prepotente, è lì che Cristo vuole arrivare. Nel fondo della nostra anima, della nostra vita. In ogni caso, per me la disponibilità del cuore è la prima cosa e l’ho verificato in questo percorso: il Signore mi aspetta laddove mi chiamerà ad essere presente. In Seminario ogni anno ho vissuto esperienze e realtà diverse e ho visto che comunque il Signore era lì.
Che rapporto hai con movimenti e associazioni?
Io provengo dalla realtà parrocchiale di Santo Stefano e sono venuto a contatto tardi con i movimenti, con le associazioni. In Seminario mi sono avvicinato a diverse realtà e ho compreso che sono una ricchezza per tutti all’interno della Chiesa. E’ lo Spirito Santo che si fa presente per rendere più viva la fede. Credo che le parrocchie dovrebbero essere più aperte nei loro confronti, non considerandole come concorrenziali, ma come realtà concrete che avvicinano le persone alla fede, che possono dare alla parrocchia una vivacità ulteriore. Vedo il rischio di chiudersi reciprocamente, per chi vive un carisma particolare e per la parrocchia. Questo chiudersi è un chiudersi a Cristo, perché porta a concepirsi da soli. Invece la fede ci fa uscire verso l’altro, perché è incontro con Cristo, che si fa presente nei fratelli.
Hai citato le tue zie religiose. Che ruolo ha, secondo te, la donna nella Chiesa?
Nella mia vita le figure femminili che mi hanno accompagnato sono imprescindibili. Penso a mia mamma, alle mie zie, a certe mie amiche. Il femminile è necessario, con un carisma tutto particolare che significa capacità di accoglienza, di affetto, capacità di comprensione, di vicinanza anche nei momenti più difficili e di premura nell’educazione. Sono aspetti che gli uomini hanno, ma a loro modo. E poi penso alla Madonna: a Caorle c’è il santuario della Madonna dell’Angelo e lì ho sperimentato in più occasioni la consolazione che viene dalla vicinanza di Maria, una vicinanza che è tutt’altro che astratta. Quando vado a casa, vado sempre al Santuario e affido a Maria tutto ciò che ho nel cuore e avverto la consolazione, la sua presenza materna, la sua capacità di dare pace.
Ora che stai per avvicinarti all’ordinazione, chi vorresti ringraziare per questo tuo percorso?
Ringrazio la mia famiglia, mio fratello Mattia. E poi i sacerdoti che mi hanno accompagnato, don Giuseppe Manzato, don Giuseppe Simoni, don Corrado Cannizzaro, don Marco Scaggiante, don Claudio Gueraldi e don Francesco Marchesi. Ringrazio i due vescovi, il card. Scola che mi ha accolto all’inizio del percorso e il Patriarca Moraglia. Nei momenti più intensi e più difficili la parola del Patriarca Francesco mi ha molto rassicurato, ho visto in lui la voce di Cristo per la mia vita. Poi ringrazio ancora i due rettori don Lucio Cilia e don Fabrizio Favaro. Infine don Giacinto Danieli, che è il nostro padre spirituale, ovvero la persona alla quale abbiamo aperto il cuore. Ringrazio gli amici che mi sono stati vicini, hanno saputo accettare la mia scelta e hanno saputo farmi sentire la loro vicinanza.
Serena Spinazzi Lucchesi