«Il sacerdote ordinato è chiamato, in modo particolare, ad amare Gesù non fermandosi ai criteri del mondo; è Gesù che ha messo in guardia i discepoli da questo limite: “…se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? (…) E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?”».
Citando il vangelo di Matteo, il Patriarca richiama un tratto di fondo dell’esperienza e dell’identità del sacerdote. Lo fa nell’omelia della Messa durante la quale, sabato 7 mattina nella basilica di San Marco, ha ordinato prete don Gianluca Fabbian.
«L’amore cristiano – afferma il Patriarca Francesco – va ben oltre le simpatie e le antipatie umane, oltre la sintonia del carattere, il sorriso di circostanza, l’osservanza del galateo. I discepoli del Signore – e, in modo particolare, chi è costituito nel sacramento dell’ordine – sono chiamati ad essere segni visibili di Gesù Cristo-capo in mezzo ai fratelli, pronti ad amare con tutta la loro persona, ossia con intelligenza, volontà, memoria, sentimento. Il loro amore deve essere “cattolico”, ossia aperto a tutto e tutti».
Mons. Moraglia ha sottolineato questi elementi di fondo in una Cattedrale gremita; presente, ovviamente tutta la famiglia di don Gianluca, ma anche una rappresentanza del suo paese natale, Borso del Grappa, guidata dal sindaco che, nell’occasione, ha presto, insieme alla moglie, laddove usualmente siedono i procuratori di San Marco. Un onore molto gradito.
«“Cattolico” – ha continuato il Patriarca – vuol dire “universale” – secondo il tutto -; non esclude nulla, accoglie e comprende tutti. Banco di prova dell’amore per ogni discepolo – in primis per il ministro ordinato – è sia non escludere alcuno, sia non ridurre i contenuti dell’amore. Che cosa significa, concretamente? Amare chi appartiene al proprio popolo e chi non vi appartiene, saper stare col ricco e col povero, con il dotto e con l’ignorante, frequentare la persona umanamente simpatica e quella antipatica, accogliere chi è dotato e chi non lo è… E la lista delle esemplificazioni non è finita».
La meditazione di mons. Moraglia è proseguita, infatti, con la sottolineatura di altre azioni caratteristiche e identitarie del presbitero: «Ogni battezzato – e ogni ministro ordinato in particolare – deve vigilare sulla sua persona e realizzare tale dono di sé sapendo andar oltre se stesso. In altri termini, nel suo impegno pastorale, deve sentirsi chiamato in causa sia dalle necessità materiali sia spirituali del prossimo, ovvero procurare il cibo, il vestito, l’alloggio e prendersi cura dei malati, dei carcerati ma anche – cosa ancor più difficile, non meno urgente e che non di rado si dimentica… – consigliare, insegnare, ammonire i fratelli (correzione fraterna) e, ancora, consolare, perdonare, sopportare e pregare per i vivi e i morti. Sì, le opere di misericordia vanno abbracciate tutte, senza esclusioni e senza dare spazio a criteri ideologici; ci ricordano che il bene non lo stabiliamo noi secondo i nostri gusti e propensioni».
Tutto ciò perché «il bene è, piuttosto, qualcosa che precede noi e i nostri gusti e che dobbiamo saper riconoscere e scegliere. Sì, il bene va scelto e compiuto a 360° e ci obbliga a uscire dal nostro io, dal nostro particolare, dal nostro individualismo. Tutti, in modo indistinto, dobbiamo vigilare sulle nostre scelte per evitare riduzioni indebite che costringono la pastorale a scelte di tipo psicologico o sociologico o di tipo intellettualistico o liturgico».
In questo senso l’ordinazione di un nuovo sacerdote «è un momento di grazia per la Chiesa che è in Venezia. Sta, infatti, per ricevere il dono di un novello sacerdote. Ancora una volta, quindi, siamo esauditi dal Padre che è nei cieli; Gesù, nel Vangelo, ci ricorda che il dono di un nuovo operaio è sempre il frutto della preghiera dei discepoli rivolta con fede al Padrone della messe».