«Passato il ponte sul Tigri, siamo assaliti dallo sgomento più totale. Più nessuna casa è rimasta in piedi, in una città di 2 milioni di abitanti». È l’osservazione triste e angosciosa che don Giorgio Scatto fa nel giorno in cui entra a Mosul.
L’antica Ninive, dopo due anni di occupazione da parte dell’Isis e a nove mesi dalla sua liberazione per mano dell’esercito iracheno e dei kurdi peshmerga, è ancora un ammasso di rovine.
Il priore della comunità monastica di Marango di Caorle, Cristina Santinon, una sorella di comunità, e Anna, un’amica di Bergamo, entrano in Mosul la mattina di giovedì 5 aprile. Nel viaggio da Qaraqosh, la città in cui sono ospiti e che si sta riprendendo dopo l’invasione da parte dell’Isis, sono accompagnati e protetti da due camionette di soldati. «Oltre a noi ci sono il segretario del vescovo, padre Jalal, e un prete francese. In borghese c’è anche il capo dei militari. La situazione ad est del Tigri – scrive don Scatto – è tranquilla».
È ad ovest, oltre il ponte sul Tigri, che la guerra mostra tutte le sue terribili conseguenze. «Ci dirigiamo verso la cattedrale – prosegue nel suo racconto il sacerdote veneziano – che è solo un cumulo di macerie… Con la voce rotta cantiamo nelle varie lingue canti di risurrezione».
Gli esiti disastrosi della presenza del Daesh, il Califfato estremista, sono ovunque: «In silenzio ci allontaniamo per recarci a Mar Toma, San Tommaso. Entriamo dapprima nella chiesa cattolica poi nell’adiacente chiesa ortodossa, dove in un tabernacolo erano custodite delle reliquie dell’apostolo. Vediamo i segni degli ultimi rifugi dell’Isis. Camminiamo in silenzio…».
I pensieri di un cristiano sono nel segno della contraddizione, ma non tradiscono mai la speranza: «Uccidere in nome di Dio – conclude don Giorgio Scatto – è uccidere Dio nel cuore dell’uomo. Occorre osare la pace solo per fede».