È una giornata faticosa quella di un seminarista chiamato a dire un sì ufficiale alla Chiesa. Un sì in fondo semplice (il dialogo è brevissimo), ma poderoso e denso di preoccupazione: sarò all’altezza dell’impegno che prendo? Farò brutte figure davanti all’assemblea? In definitiva, si aspettano molto da me… Ma la fatica è figlia anche dei giorni precedenti: tutto deve essere pensato per tempo: ad esempio l’abito clericale (talare, cotta, camicie…), che la Chiesa di Venezia fa indossare ai seminaristi già dall’ammissione tra i candidati al sacerdozio. O il servizio di traduzione simultanea per chi l’italiano proprio non lo conosce. Non è una situazione tanto peregrina, se il seminarista in questione viene da un Paese straniero.
Come il polacco Bogumil Wasiewicz. Lui l’italiano lo conosce bene ormai, ma i suoi no. E bisogna comunque dividere il tempo dei preparativi con gli altri doveri previsti (esami, impegni liturgici e compiti comunitari vari: niente sconti…). A ciò si aggiunge, nel caso specifico, il tempo da dedicare ai parenti che arrivano, scaglionati, qualche giorno prima, per alloggiare in Seminario, e da assistere nelle loro fondamentali esigenze comunicative e di ambientamento, nonché in quelle turistico-ricreative (non si può non cogliere l’occasione per girare Venezia…). Ma non era proprio questo l’assedio cui faceva riferimento il Patriarca nell’omelia tenuta ai Vespri di domenica 11 febbraio, in Basilica della Salute, quando ha ufficialmente accolto, in nome della Chiesa, la richiesta di Bogumil di completare la preparazione al sacerdozio: «I sacerdoti veramente tali non sono mai disoccupati… ma sempre assediati, richiesti».
Lo ha incoraggiato dunque a diventare un fedele, non certo originale o creativo, ministro del Signore; un prete buono, ma anche un buon prete, a volte scomodo, se occorre, comunque sempre secondo il cuore di Gesù. Dopo la celebrazione Bogumil ha festeggiato con qualche canzone. Un po’ in polacco e un po’ in italiano.
Giovanni Carnio