Per nulla pentito, anzi, soddisfatto che suo figlio sia l’unico ragazzo italiano della classe: «Nessuna particolare fatica e nessun ritardo nella didattica e nell’apprendimento». Così il papà di un alunno della scuola con più studenti stranieri di Mestre.
Sì, perché tutte le mattine G. – il figlio – si sveglia presto, fa colazione e poi esce per andare a prendere l’autobus che da Carpenedo lo porta in via Piave; da lì, a passi svelti, raggiunge la scuola media “Giulio Cesare” di via Cappuccina. È il tragitto che G., 12 anni, compie dal lunedì al venerdì pur avendo potuto scegliere fra tre scuole del quartiere: “Spallanzani”, “Bellini” e “Trentin”. Dopo cinque anni di frequenza alla primaria “Tintoretto”, in via monte Berico, mamma e papà hanno infatti iscritto il proprio figlio in un istituto lontano da casa, noto per l’alta concentrazione di alunni di origine straniera, molti di seconda generazione. Il motivo lo spiega il papà, Alberto Zorzi, che è anche rappresentante di classe. «La “Giulio Cesare” è una scuola a cui è molto legata la famiglia di mia moglie. L’aveva frequentata all’epoca anche suo padre, quando si chiamava “Bandiera e Moro”, poi anche mio cognato. Più recentemente l’ha scelta mio figlio più grande, ora 21enne, perché era l’unico istituto che proponeva l’indirizzo musicale. Da lì, visto che l’esperienza era stata positiva, l’abbiamo proposta anche a G.».
Zorzi, suo figlio cos’ha detto? E che impressione ha avuto?
Durante l’open day è rimasto molto colpito dalla varietà dell’offerta formativa e noi con lui. In particolare gli interessava il percorso musicale: suona il flauto traverso.
Arrivare in una classe completamente nuova, senza nemmeno un volto amico, l’ha destabilizzato all’inizio?
Direi di no. C’erano delle titubanze dovute al fatto che non si conoscessero, ma non è mai stato un problema per lui confrontarsi con altri ragazzini stranieri.
La “Giulio Cesare” è per eccellenza una scuola multietnica: sono circa 1.200 gli studenti suddivisi tra infanzia, primarie e medie, e 40 le diverse nazionalità. Com’è la situazione in classe di suo figlio?
È l’unico maschio italiano. Con lui c’è un ragazzino cinese, arrivato quest’anno, e ci sono 8 bengalesi. Tra le ragazze la situazione è un po’ più omogenea: sono 4 o 5 quelle italiane e il resto sono straniere. In totale 20 alunni.
Quindi 3 alunni su 4 hanno un background migratorio. Lei che ne pensa?
Che la realtà multiculturale e multietnica del quartiere è un dato di fatto. La scuola media è una scuola di prossimità, riflette la composizione di via Cappuccina, Corso del Popolo e le zone limitrofe, raccontando come sta cambiando questa parte di città. I casi dei bambini e ragazzini “pendolari” da altri quartieri sono eccezioni.
Come italiani, questo aspetto non vi ha mai preoccupato?
Sicuramente vi sono delle difficoltà di inserimento con gli alunni neoarrivati, ma è del tutto normale. Il ragazzino cinese, compagno di classe di G., non parlava italiano, ma la scuola offre l’opportunità di accedere alla classe incubatrice, per acquisire i rudimenti iniziali della lingua.
Con i genitori stranieri, invece, qual è il rapporto?
Posso fare due esempi. Mio figlio frequenta ora la seconda media e due anni fa ho creato la chat di classe per comunicare con gli altri genitori. Da allora vedo che soprattutto i genitori bengalesi partecipano poco: non scrive, non interagisce, non partecipa ai consigli di classe. In più quest’anno, in occasione della gita scolastica, c’era solo mio figlio. Dei suoi compagni maschi, nessuno si è presentato.
È un motivo solo culturale o c’è dell’altro secondo lei?
Credo sia anche una questione economica, ma non mi addentro in considerazioni sociologiche.
Teme che la poca partecipazione e coinvolgimento di questi genitori in qualche modo danneggi la classe?
No, la scuola lavora bene. Non ho percepito fatica e ritardi nella didattica e nell’apprendimento, vanno avanti regolarmente.
Quindi, nel complesso, valutando anche la sua precedente esperienza con il primogenito Elia, il suo giudizio è positivo?
Sì, pur nella complessità del rapporto interculturale e con alcune difficoltà di dialogo con la componente straniera. Non è tutto “rose e fiori”, ma la definizione di “scuola ghetto”, come talvolta viene dipinta, non è quella che ho vissuto io.
Anna Maselli