L’impatto è stato duro. Anche se la realtà del carcere già la conosceva. Don Massimo Cadamuro alla fine di luglio è stato designato dal Patriarca Francesco come cappellano del carcere maschile di Venezia. «Quando è mancato don Antonio Biancotto mi è stato chiesto di assumere l’incarico a Santa Maria Maggiore. Una realtà che mi era già capitato di incontrare, assistendo spiritualmente alcuni parrocchiani che erano stati ospiti. Ma l’impatto è stato caldo, violento. Il periodo estivo è stato difficilissimo. Ci sono stati dei gesti estremi, purtroppo», ricorda il sacerdote.
In questo triste computo, sono purtroppo tre i suicidi che si sono verificati negli ultimi mesi a Santa Maria Maggiore, di cui uno proprio a luglio, mentre l’ultimo è di appena una settimana fa.
I problemi sono molteplici e il cappellano, che è parroco a Campalto, li analizza uno per uno: «Vi sono problematiche logistiche e strutturali, legate al sovraffollamento: i detenuti sono 270 a fronte di una capienza di 159 posti, è un numero spropositato. E a questo si somma l’altra questione numerica, quella degli agenti che sono sottodimensionati (147, ma ne servirebbero oltre 200, ndr). Per non parlare degli educatori che sono appena 4 e poco riescono a fare». E poi vi sono le problematiche riguardo alle provenienze: «Il 70% dei detenuti è costituito da extracomunitari e questo vuol dire lingue, culture, religioni, atteggiamenti, comportamenti tutti diversi. E’ un mix complicato». E non è finita: «Abbiamo altri due fattori. Il primo è che vi sono circa 30 detenuti con problemi psichiatrici. Non dovrebbero trovarsi in questa struttura, ma è così. E poi una quarantina sono tossicodipendenti. Tutto questo, messo insieme, crea grossissimi problemi».
Il cappellano riflette poi su cosa è e cosa dovrebbe essere il carcere: «C’è un problema di tipo culturale. Consideriamo il carcere come un luogo dove scontare la pena, mentre dovrebbe essere un luogo di rieducazione. Abbiamo in testa il concetto di giustizia vendicativa, cioè che “chi sbaglia paga”. Ma dovremmo, soprattutto noi cristiani, tendere al
concetto di giustizia riparativa».
La strada della riparazione passa per le opportunità lavorative dei detenuti, la formazione, la possibilità di scontare la pena al di fuori del carcere mediante le forme alternative. Strumenti già previsti dalla legge e che, anche a Venezia, si stanno mettendo in pratica da tempo. Anche se con numeri purtroppo bassi, rispetto alla totalità della popolazione carceraria. «Il direttore Enrico Farina, giunto a Venezia circa un anno fa, si sta adoperando moltissimo in questa direzione, con corsi di formazione, percorsi di messa alla prova ecc. Ma servirebbe più personale».
In questo solco si inseriscono le azioni della Caritas veneziana, volte proprio a sostenere il percorso dei detenuti verso la rieducazione e l’inclusione sociale, mediante posti letto e mini-alloggi. «In questo ambito c’è poi il coinvolgimento di alcune parrocchie, per l’inserimento lavorativo di alcuni detenuti. Il primo ostacolo rimane comunque l’alloggio perché chi non ha un posto all’esterno non può accedere ai percorsi alternativi. E questo rappresenta un ulteriore motivo di disperazione, per quei detenuti che avrebbero i requisiti per uscire ma non possono. Per loro l’attesa è ancora più d
ifficile. Anche perché qui dentro è un inferno e la realtà spesso ti fa incattivire: pensiamo a una cella con 8 persone, il caldo, le diverse culture, magari un caso psichiatrico che non fa dormire la notte. Questa è la condizione che si trovano a vivere i detenuti». Una situazione che induce alla recidività, quando invece i percorsi alternativi all’esterno si traducono quasi sempre in un pieno reinserimento dell’ex detenuto nella società, allontanandolo così dalle possibilità di reiterare il reato. «Io dico sempre – riflette il cappellano – che meno carcere significa più sicurezza».
In questo contesto la presenza della cappellanìa è un piccolo segno, ma è anche un aiuto concreto: «Siamo in dieci persone, con religiosi e religiose, è davvero una bella realtà della nostra Chiesa. Se da una parte l’impatto con il carcere per me è stato duro, devo però dire che è stato al tempo stesso dolce, consolante, l’incontro con le persone. La realtà della cappellanìa del carcere è molto bella», sottolinea don Cadamuro. L’aiuto concreto è rappresentato da uno sportello dove si distribuisce ai detenuti vestiario o qualche soldo per le piccole spese necessarie. Ci sono persone che non hanno nessuno all’esterno, specie gli stranieri, e gli serve tutto. «E poi c’è l’annuncio, con l’Adorazione eucaristica la preghiera, il gruppo biblico, le prove di canto e la Messa. Stiamo rilanciando l’opportunità per i gruppi parrocchiali di venire ad animare l’Eucaristia: è bello poi fermarsi a dialogare con i detenuti, perché si scopre il vero volto delle persone che incontriamo. Per me loro non sono dei colpevoli, sono dei condannati. Stanno scontando una pena, ma spesso sono anche loro vittime di ciò che hanno fatto. Non li giustifico, ma le storie che sento, ciò che hanno patito nella loro vita, mi porta a considerarli delle vittime».
E poi c’è il ricordo di don Antonio, che si è tramutato mercoledì pomeriggio in un gesto concreto. «L’idea della targa in sua memoria è nata dall’interno del carcere, per ringraziarlo di tutto il bene che ha fatto qui dentro in 25 anni di servizio. Tutti coloro che lo hanno incontrato, i detenuti e gli agenti, hanno di lui una memoria grata. Ha lasciato un bel segno, gli sono tutti riconoscenti».
Serena Spinazzi Lucchesi