Don Nandino ha un sogno: «Leggere un giorno sui giornali che una comunità, una città, una regione o magari un Paese intero festeggiano la fine dell’emergenza perché ogni singolo e ogni famiglia ha semplicemente scoperto la ricchezza di avere a tavola un amico, ex profugo, diventato fratello». Don Nandino l’ha fatto e continua a farlo: ha aperto la porta della sua canonica prima a un giovane ragazzo venuto da lontano e poi, via via, agli altri. Con semplicità ha offerto loro uno spazio dove stare in famiglia, dove parlare, dove essere amici e anche, semplicemente, dove non fare nulla, come del resto fanno spesso i coetanei, o giù di lì, nei lunghi pomeriggi dopo la scuola. Un piccolo spazio di normalità per ragazzi diventati adulti troppo presto, che una vita normale non ce l’hanno più. Sono scappati dal loro paese, dall’Africa, chi per la guerra, chi per la mancanza di lavoro, chi perché ha perso la famiglia. E, dopo mille peripezie, sono sbarcati in Italia. Di questo e molto altro racconta il libro “Non sapevo che il mare fosse salato”, scritto a due mani da Nandino Capovilla e Betta Tusset (edizioni Paoline). La parrocchia di don Nandino, alla Cita a Marghera, è diventata in questi anni un luogo di accoglienza fraterna per moltissime persone. La domenica mattina decine di persone senza dimora fanno colazione con il parroco e con i volontari, mentre negli ultimi mesi ha aperto la “Casa di Amadou”: è la casa del parroco, che un pomeriggio la settimana ospita un gruppo piuttosto numeroso di ragazzi – tutti richiedenti asilo – che vivono nei dintorni, ospitati da cooperative. «I primi hanno cominciato a venire perché qui c’è la connessione a internet», ricorda don Nandino. Pur rimanendo uno spazio informale, la cosa si è un po’ strutturata con l’aiuto di alcune volontarie – Adriana, Alessandra, Anna, Laura, Betta – salite un pomeriggio d’inverno per dare una mano. Con loro i ragazzi imparano l’italiano, si confidano, raccontando le proprie storie.
Amadou in cerca di fortuna. Alcune di queste sono entrate nelle pagine di questo libro: qui ci sono le voci di Amadou, Festus, Moussa, Ousain, Mady… Ed è proprio ad Amadou che è stata dedicata, informalmente, la casa nei mesi in cui il ragazzo era partito per cercare fortuna al Sud: ottenuto il permesso di soggiorno, uscito dalla rete di protezione riservata ai richiedenti asilo, Amadou aveva presto scoperto quanto fosse difficile trovare casa e lavoro. «Io non sono venuto qui per chiedere la carità. Non è questo ciò che mi ha insegnato mia mamma», aveva detto alle volontarie che cercavano di dissuaderlo. E così è partito per la Puglia, a raccogliere pomodori, trovando l’inferno, sotto forma di quelle crudeli regole del caporalato che tutti fingono di non vedere ma che è una vera e propria schiavitù dei giorni nostri. Per fortuna, terminata la stagione, Amadou è tornato qui sano e salvo… La sua è una storia a lieto fine, ma non per tutti è così. C’è chi arranca e chi si arrende.
Nessuno era partito da casa con l’obiettivo di venire in Italia. Tutto questo è raccontato in questo libro crudo, dove le voci di Amadou e degli altri si alternano nel raccontare l’infanzia nel paese d’origine, i motivi spesso drammatici della partenza, le terrificanti condizioni del viaggio. «Nessuno è partito con l’idea di venire qui in Italia», sintetizza Betta Tusset. «Cercavano un lavoro da qualche parte in Africa, qualcuno è fuggito in cerca di un luogo sicuro, dopo aver perso la famiglia. Ma non trovando nulla di tutto questo, tutti sono finiti nella rete dei trafficanti che li hanno condotti in Libia per poi imbarcarli verso l’Italia». Viaggi terribili, condizioni disumane, dove la morte più volte li ha sfiorati: qualcuno è naufragato e si è salvato aggrappandosi al relitto del barcone, resistendo per ore tra le onde mentre gli altri annegavano. Il titolo viene proprio dal racconto di uno di loro, che rimasto senz’acqua nel barcone, spinto da una sete insopportabile, ha bevuto l’acqua del mare, rischiando di morire. Non aveva idea che l’acqua del mare fosse salata… Tanti gli interrogativi che emergono da queste pagine. E grande l’angoscia delle volontarie che vorrebbero poter fare di più, avvertendo nei confronti di questi ragazzi così giovani un sentimento materno: «Ci è venuta in mente una frase di don Tonino Bello, scritta nel ’91 al tempo degli sbarchi degli albanesi. Lui nei volti di quei ragazzi vedeva le loro madri, l’attesa, la gioia e le speranze alla loro nascita e poi il dolore nel lasciarli partire. “Quella gente va amata, diceva allora don Tonino Bello, uno per uno, come se di ciascuno fossimo madre”». Maternità e paternità, nel caso di don Nandino: «Da quando la sua porta di casa si è aperta a tutti – scrivono i due autori – la sua vita di prete è decisamente cambiata». Tante domande, anche come cittadini. «Come possiamo portare avanti questa accoglienza? Noi al Nord siamo quelli della seconda accoglienza: non vediamo gli sbarchi, qui arrivano i profughi destinati alle cooperative. Proprio per conoscere da vicino la “prima accoglienza”, i due autori si sono recati qualche mese fa a Lampedusa, dove hanno potuto rendersi conto di persona della situazione, delle difficoltà, ma anche dei tanti luoghi di solidarietà e umanità che le persone di buona volontà hanno messo a disposizione per chi sbarca nell’isola.
Andare oltre la diffidenza. Qui da noi, accanto ai luoghi istituzionali dell’accoglienza gestiti dalle cooperative, non c’è praticamente altro: «Non c’è alcun contatto con il resto della città. Rimane la diffidenza, se non il razzismo vero e proprio», osserva don Nandino. Invece, conoscendoli ad uno ad uno, si può andare oltre la diffidenza. E scoprire, per esempio, che Mady è diventato uno scout, che ora fa il portiere d’albergo ed è iscritto allo Zuccante, che altri ragazzi hanno preso il diploma di terza media. Che Amadou, dopo la terribile esperienza in Puglia, tra poco inizierà il servizio civile e assisterà gli anziani. «C’è grande diffidenza nei loro confronti – sottolineano i due autori – va meglio se ad accompagnarli alla ricerca di un lavoro ci sono gli italiani, se si riesce a far leva sulla rete delle conoscenze. Bisognerebbe che queste esperienze si moltiplicassero». Ed eccolo, il finale del libro affidato ai sogni dei ragazzi (il permesso di soggiorno, un lavoro, una casa), a quelli delle volontarie che si sentono un po’ come le loro madri e vorrebbero vederli “sistemati” ma anche in pace con il loro travagliato passato: «Sogno – scrive Betta – che Amadou, Festus, Mady, Moussa e Ousain, possano per un giorno riprendersi le capriole che facevano da bambini; che possano per un giorno, almeno, vivere senza doversi preoccupare di permessi-dinieghi-lavoro… Che arrivi il tempo per questi amici di realizzare i loro sogni diurni, ovunque decideranno di vivere».
Serena Spinazzi Lucchesi