C’è un fenomeno, annoverato tra le dinamiche culturali, che prende il nome di deculturazione. Si tratta della perdita di un dato, un’esperienza, una pratica di rilevanza culturale, spesso a vantaggio di qualcosa che va a sostituirvisi: deculturazione per sostituzione.
Tale forma par bene attagliarsi a quanto sta da anni accadendo a riguardo dei festeggiamenti di Halloween, ricorrenza sulla quale le posizioni, anche internamente alla Chiesa, paiono assai diversificate, dal rifiuto e opposizione radicale alla remissiva accoglienza e addirittura promozione, in rapporto a disposizioni diverse, dalla sopravvalutazione di questo tipo di festeggiamenti alla loro sottovalutazione.
Non è, qui, in questione, la demonizzazione di Halloween e la sua sbrigativa ascrizione nell’ambito dell’occultismo (anche se non se ne può certo escludere, in determinati contesti, tale potenzialità), o la sua derubricazione a fenomeno puramente commerciale. Non è neppure in questione l’origine notoriamente cristiana della ricorrenza, percepibile sin nell’originaria denominazione di All Hallows’ Eve, “Vigilia di Ognissanti”.
Ciò che è in questione è la sua evoluzione al presente, la forma in cui attualmente figura e la simbolica che pone in atto. È qui che va giocata la partita, che va seriamente posta la domanda sul suo valore o disvalore.
Se è vero, infatti, che il fenomeno, introdotto in tempi relativamente recenti in Italia, pare essersi diffuso grazie ad una sua rapida strumentalizzazione commerciale, la forma che ha assunto, in forza anche della moltiplicazione dell’apparato di tutto quello che vi poteva essere costruito e sfruttato intorno, è quella di un’occasione variamente ludico-ricreativa, per lo più per bambini e adolescenti, la cui specificità sta nel carattere evocativo di quanto ha a che fare con la morte e l’oltretomba, in una trascrizione simbolica che mette in campo, con varie soluzioni – dalle più romanticamente “gotiche” alle più marcatamente tetre e macabre –, la realtà della morte e del regno delle tenebre, rappresentata nella sua negatività, eppure esorcizzata attraverso la conversione ludica e grottesca di quanto nella comune esperienza umana costituirebbe altrimenti motivo di disperazione. In fondo, è una visione nichilista, che veste a pennello il vuoto del secolarismo postmoderno, quella soggiacente alla celebrazione di Halloween nelle forme presenti. E della morte come questione insoluta, o che si è rinunciato a pensare nella luce del Risorto. Una visione di negatività radicale (il nichilismo è la persuasione che nulla – nihil – valga e abbia un senso ultimo e stabile) sull’esperienza di più acuta negatività della vita umana: l’annientamento proprio e, con sé, dell’intero proprio orizzonte fenomenico ed esperienziale.
Ora, il senso della morte, il modo in cui la consideriamo (o non la consideriamo, la rimuoviamo, ne rifuggiamo il pensiero) inevitabilmente retroillumina il senso della vita. Colora, curva, ridisegna il vissuto dell’intero arco della nostra esistenza. Che assume un significato profondamente diverso in rapporto a come è pensato quell’ultimo atto che ne sigilla il corso.
Perveniamo così a quanto inizialmente accennato sulla deculturazione. Il problema principale di Halloween è, col suo collocarsi a ridosso delle celebrazioni dei Santi e dei Defunti, di porsi in sostituzione – giocando per di più d’anticipo, col massimo effetto diversivo – al vissuto cristiano di questi due preziosissimi e intensi momenti celebrativi dell’Anno liturgico. Che anziché sciupati e dispersi attraverso un fattore di diversione e distorsione come questo – ed è assai triste vedere con quanta cedevole superficialità e inconsapevolezza – andrebbero invece riscoperti nella loro luminosa bellezza.
Prima i Santi. E vengono a mente quelle figurazioni del Paradiso che sono autentici caleidoscopi di colori. La santità è incantevole policromia di vita, di vita piena e compiuta nella straordinaria varietà di condizioni e carismi ab aeterno pensati e amati nel Verbo. E c’è una sfumatura di colore per ciascuno di noi, che dovremmo osare, per la nostra esistenza. E a seguire, i Morti. E non in astratto. I nostri defunti, le tante persone, congiunti, amici, conoscenti, che ci hanno preceduto e per i quali possiamo sperare e implorare alla misericordia di Dio quello stesso esito di vita eterna celebrata, il giorno prima, nei Santi. E noi, noi stessi, infine. A saperci pensare e vedere, e sperare, in quella stessa scia di luce, in quella vocazione all’eternità. O aeterna veritas et vera caritas et cara aeternitas! (Conf., 7,10,16). Una grande celebrazione della vita, dunque, in una continuità comunionale di vivi che traguardano i loro cari defunti nella luce dei Santi.
Cogliere, allora, a partire dalle celebrazioni liturgiche, quei giorni nella loro densità, e riservarci il tempo opportuno per una visita, non frettolosa, possibilmente in famiglia, al Cimitero, presso le sepolture dei molti che hanno variamente segnato il corso della nostra esistenza. Farne uno spazio di silenzio, e nel silenzio, di pensiero, e nel pensiero, di preghiera. E lì educarci, ed educare, anche attraverso questo piccolo gesto, alla memoria, e nella memoria, alla gratitudine. E saperla rivolgere, memori della nostra finitezza, maestra di umiltà, ai vivi ai quali ancora ci accompagniamo in questo pellegrinaggio terreno.
Alberto Peratoner