Nell’affascinante mondo di Caterina De Boni, passeggiare “a passo di pecora” è molto più di un semplice camminare tra le montagne o le pianure; è un’esperienza di profonda connessione con gli animali e con la natura stessa.
Nel suo libro “A passo di pecora. Il viaggio di una pastora transumante” edito per i tipi di Ediciclo Editore 2023, Caterina ci conduce in un viaggio attraverso la sua vita di pastore transumante tra Veneto e Friuli: 39 anni, una laurea in Tecniche Erboristiche e un quasi diploma al Conservatorio, l’autrice fa la pastora da circa 15 anni. Non è figlia di pastori – precisa – anche se in casa hanno sempre avuto 2-3 caprette per avere il latte, ma si è appassionata fin da piccola a questo mondo perché la nonna da piccola era stata in malga con i suoi genitori e le raccontava spesso i suoi ricordi.
Come nasce questa sua connessione profonda con gli animali?
Credo che dovrebbe essere la normalità. D’altronde, siamo animali anche noi uomini. Ogni individuo dovrebbe cercare quell’animale con cui si sente più in sintonia. È insito nella nostra natura instaurare un rapporto di connessione con gli animali. Io ho avvertito fin da piccolina di essere attratta dalle pecore e dalle capre.
Dice di sentirsi più una pecora che una pastora, perché?
Tutti possono fare il pastore, ma non tutti entrano in empatia con i propri animali. Io mi sono fatta pecora per accudire i miei animali. Ragiono come loro, sento quello che sentono loro, comunico come comunicano loro in maniera quasi telepatica. Anche caratterialmente mi sento una pecora: buona di carattere, amo stare in gruppo ma brucando in solitudine il mio piccolo pezzo di pascolo. C’è una grande differenza tra allevare degli animali imponendo la nostra umanità o, invece, assecondando i loro reali bisogni. Non è giusto umanizzarli, bisogna fare esattamente il contrario, lasciare che gli animali siano quello che sono. Siamo noi che dobbiamo entrare in empatia con loro.
Nel libro racconta la sua esperienza di un anno simbolico a piedi con mille pecore, un cane e una fisarmonica. Qual è stato il momento più memorabile di questo viaggio?
Momenti memorabili ce ne sono stati tanti, sia belli che brutti, difficile dare importanza ad uno in particolare. Mi sono rimaste nell’anima e nel corpo tutte le emozioni e le sensazioni provate in questi lunghi anni: il freddo degli inverni passati nelle pianure friulane, il vento incessante che mi accarezzava nei pascoli di Cortina d’Ampezzo, il gusto del vino bevuto direttamente dalla botte dei miei amici contadini friulani cantando le canzoni di una volta, o il sapore resinoso della grappa al cirmolo gustata assieme ai malghesi altoatesini tra una partita alla morra e una polka suonata con la fisarmonica, il dolore alle gambe dopo le lunghe traversate con il gregge, l’angoscia della solitudine, la paura, l’ansia, molta, che non accadesse nulla di male ai miei animali, le lacrime versate dalla rabbia e dalla stanchezza perché ci sono circostanze nelle quali finisci per odiare questo lavoro. Poi vedo mia figlia che corre libera in un prato a rincorrere un gruppetto di pecore con la “bagolina” (il bastone ricurvo dei pastori) con un sorriso che sa di vita e felicità allo stato puro, e quello sì che è un momento memorabile, che mi ripaga di tutte le fatiche.
Quali sono i vantaggi e le sfide di mantenere tradizioni così radicate?
È in gioco la sopravvivenza dell’uomo stesso. La sfida è quella di andare contro chi ci vorrebbe tutti globalizzati, schedati, omologati ad un unico pensiero “politically correct”, senza identità, senza quella straordinaria biodiversità dell’essere che contraddistingue noi umani, ma che è piuttosto difficile da controllare per chi ci governa.
Pensa ci possa essere un benessere materiale ma anche psicologico?
Il disagio psicologico credo sia trasversale a tutti gli stili di vita e dipende da tanti fattori. Come dicevo prima, anche facendo i pastori si vivono momenti molto duri, che segnano a livello psicologico. Invece per quel che riguarda il benessere materiale, mi sento di dire che sì, un sistema di vita che non dipende troppo dalla tecnologia e dal sistema globalizzato di oggi, può portare dei vantaggi. Basti pensare a quello che è successo durante il covid: mentre nelle città la gente era murata in casa, nelle campagne si viveva, in tutti i sensi. Noi pastori, semplicemente abbiamo continuato a fare quello che abbiamo sempre fatto: pascolare le pecore. E così i contadini e gli allevatori in generale. L’agricoltura non si è mai fermata. Il lavoro di pastore inoltre, ti insegna ad avere sempre un piano di riserva: se non trovi erba da una parte, ti sposti da un’altra. Dovrebbe essere così per tutti, dovremmo ricordare che nulla è definitivo e che l’essere umano è molto vulnerabile.
Come nasce l’idea e l’esigenza di scrivere un libro, quale messaggio vorrebbe trasmettere ai lettori e cosa le piacerebbe ricordassero dopo aver letto la sua storia?
L’idea del voler raccontare il fascino delle pianure ai miei amici di montagna e viceversa, le mie avventure su per le montagne ai miei amici di pianura, in modo da mettere in connessione i miei due mondi, ai quali appartengo. Ci sono pastori che vivono i luoghi dove pascolano senza attaccamento, io invece in ogni luogo dove sono passata ho lasciato un pezzo di cuore e tale luogo ha lasciato un’impronta dentro di me. Poi man mano che scrivevo mi sono resa conto che stavo creando un libro che si poteva leggere da molti punti di vista: c’è il tema della pastorizia transumante con le implicazioni che riguardano il benessere animale; c’è il tema dell’amicizia, con le storie straordinarie degli amici che ho incontrato lungo il mio cammino. “A passo di pecora” può anche essere letto come una guida turistica insolita, dove i luoghi vengono scoperti arrivandoci a piedi e lentamente, e vissuti da un punto di vista diverso da quello del turista. Mi piacerebbe che i lettori si appassionassero alla mia storia e che andassero a visitare i luoghi che racconto nel libro.
Giuseppe Antonio Valletta