La scelta estrema di chiedere di interrompere la propria vita di fronte ad una malattia incurabile può apparire umanamente comprensibile. Ci mette però davanti al fatto di quanto sia importante saper decodificare la richiesta di essere aiutati a morire.
Quante volte questa richiesta è condizionata da un non adeguato controllo del dolore, dalla mancanza di supporto sociale, dal fatto di sentirsi di peso o di essere soli o ancora dalla mancanza di speranza, magari percepita, ancor prima che dal malato, da chi lo circonda?
La scelta effettuata dalla signora di Treviso e della quale si parla in questi giorni ci fa riflettere su quanto sia importante una relazione di cura attenta a tutti gli aspetti della persona malata. In questo senso le cure palliative riaffermano la necessità di una “cura globale” che ha il malato al centro prima di tutto come persona, spostando l’obiettivo dal guarire al prendersi cura. Risulta fondamentale uscire da una logica che vede la malattia solo come un problema sanitario e che rischia di ridurre le scelte di fine vita ad un atto meramente giuridico e/o amministrativo.
Certo, questo chiama tutti ad una maggior responsabilità: i medici e gli infermieri nel gestire al meglio tutte le situazioni di disagio e sofferenza che la malattia può creare, la società a fornire il supporto dovuto alle famiglie e al malato, le persone che circondano il malato a vivere dentro una relazione d’aiuto pienamente umana fino alla fine.
Forse “accompagnare alla morte e non provocarla”, come ci ricorda Papa Francesco, è la vera sfida alla quale oggi siamo chiamati.
Gremio di Bioetica
gruppo del Patriarcato di Venezia
Fine vita, Gremio di Bioetica: Il malato va accompagnato nella cura e nella relazione
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