Gesù è la motivazione. Altre non ce ne sono e umanamente non ce ne potrebbero essere. E allora, nel nome e nell’incontro con Gesù, anche le cose difficili prendono una ragione e un lato decisamente positivo.
Ecco: i due lati della medaglia – con uno dei due decisamente più brillante e attraente – potrebbero essere l’immagine che fa sintesi della storia di fede e della vocazione al sacerdozio di Lorenzo Manzoni che sabato 24 alle 10 in San Marco, insieme a Matteo Gabrieli, verrà ordinato sacerdote per le mani del Patriarca Francesco.
Lorenzo nasce nel 1996 a Padova e vive i suoi primo otto anni insieme ai genitori e alla sorella, che ha tre anni di meno, nel quartiere Arcella. Poi, per assistere i nonni, la famiglia – che ha radici in parte a Burano, in parte a Venezia nella parrocchia dei Frari e in parte nel Trevigiano – cambia città e si stabilisce a Mestre.
E il primo barlume di vocazione ha a che fare proprio con il cambio di città. Difficile da comprendere? «No, se dico che in quel momento ho avvertito di aver perso tutti i contatti e gli amici, i luoghi e le abitudini della mia infanzia. Mi rendevo conto che l’unica presenza che rimaneva stabile era quella del Signore, la Sua amicizia, l’incontro con Lui: per me è stata una esperienza importante. E a Mestre, in via Piave, mi sono subito avvicinato alla vita di parrocchia, di mia volontà, perché vedevo nella parrocchia un segno di continuità».
Altre esperienze che oggi riconosci ti abbiano segnato?
Per quanto sembri paradossale, è stata quella degli scout Cngei, gli scout aconfessionali.
Cosa c’entrano con la vita di fede?
È stato fondamentale l’esempio umano dei capi che ho avuto, in cui riconoscevo i valori che in parrocchia mi venivano proposti. Per quanto strano, è successo che anche chi non va in chiesa può essere un modello, perfino per una vocazione presbiterale.
Quali i valori che ti hanno trasmesso?
Quelli contenuti della promessa scout, che puntano al dono di sé agli altri, cioè qualcosa che poi la fede cristiana esplicita e compie. Quello che mi ha aiutato a fare il salto di qualità è stato riconoscere che questo dono di sé è pieno e pienamente possibile solo quando è vissuto a partire dall’incontro con il Signore.
Perché questa pienezza non è possibile altrimenti?
Perché il contesto culturale in cui viviamo non aiuta a credere nella fedeltà, nel “per sempre”, in un impegno che duri tutta la vita. Nel momento in cui entri nel ministero, invece, vivi sempre nel dono di te, cioè in un donarti incondizionato.
La parrocchia, la fede, i valori scout…: in genere, però, quando si arriva all’adolescenza queste consapevolezze subiscono delle crisi…
Sì, anch’io ho avuto una grossa crisi di fede in prima liceo – ho fatto il Franchetti a Mestre – determinata dall’incontro con la filosofia e con i miei coetanei che pensavano tutt’altro.
Cosa ti metteva più in crisi?
Soprattutto fare il passaggio da una fede da bambino ad una fede da adulto, cioè ragionata e che si sostenga sulle proprie gambe. Mi facevo delle domande: ma io ci credo davvero a Dio e a Gesù?, vado a messa la domenica per incontrare il Signore o per fare altro? È stata però una crisi positiva, che ha prodotto maturazione.
Quando eri al liceo, i tuoi compagni di classe cosa pensavano delle tue idee e cosa ti dicevano?
I miei compagni sapevano che ero credente, sospettavano una mia svolta vocazionale anche se l’ho tenuta riservata, in primo luogo perché non ne ero sicuro io. Pochi lo sapevano e quelli cui lo confidavo erano anche quelli che sapevo mi avrebbero preso sul serio. Con loro ho mantenuto un legame che la prova del tempo ha confermato nella sua bontà.
Quindi a 15 anni consideravi che il sacerdozio potesse essere la tua strada?
Sì. Dalla seconda superiore ho iniziato a frequentare i gruppi vocazionali del Seminario con don Raffaele Muresu e don Pierpaolo Dal Corso. Era un’esperienza vocazionale già orientata, che ho vissuta a fasi alterne, con gli sbandamenti normali dell’età ma anche con serietà.
E poi?
Determinante è stato il confronto con il Patriarca Francesco, nel 2015, a partire dal quale mi sono detto: provo a entrare in Seminario, faccio un anno e vediamo. Ho avuto conferme dagli educatori, dalla vita parrocchiale e dalle esperienze che ho fatto. Così gli anni di formazione sono passati e oggi arrivo a una ordinazione serena, sapendo che c’è una lunga strada da fare ma che ho un sostegno forte rispetto all’impegno che mi assumo per la Chiesa.
La cosa che immagini più bella dell’essere prete?
Il sentirsi sempre accompagnati, in primo luogo dal Signore Gesù: una consapevolezza di fede che sostiene e consola. Questo dà molta serenità e molta fiducia anche nell’affrontare le crisi e le difficoltà.
La cosa che invece ti immagini più difficile?
La solitudine, che è l’altra faccia della medaglia di quanto dicevo. L’aspetto più bello è il non essere da soli mai e quello che mi fa più paura è la solitudine: sono le due facce della stessa medaglia. Ma sono certo che, oltre a quello del Signore, ci saranno la vicinanza della mia famiglia e delle comunità parrocchiali dove andrò.
Una delle condizioni e dei pilastri del sacerdozio è l’obbedienza, che dal pensiero comune è considerata una cosa non gradevole. Tu cosa ne pensi?
La vita di Seminario, per esempio, ti costringe a delle obbedienze, che soprattutto il primo anno ho percepito come faticose: non poter andare in un certo posto o in un altro, non poter frequentare tanto facilmente gli amici, dover lasciare gli scout…: insomma, non puoi fare una vita in cui sei tu a fissare quello che vuoi fare. Questi passaggi sono stati molto difficili a livello personale, nel trovarmi davanti a dei no, ma sono stati i passaggi più importanti negli anni del Seminario, perché diventano ciò che ti prepara e dispone a scegliere non quello che vuoi tu, ma quello che il Signore ti chiede, che è l’atteggiamento fondamentale vissuto da Gesù stesso nella sua vita: “non la mia ma la tua volontà”. Oggi mi dico: o è così o non c’è altra motivazione che tenga; o imparo a essere simile a Gesù – e questo mi basta e mi dà gioia – o non ci sono motivazioni umane che possano sostenere passaggi di questo tipo. Ed è bello capire a posteriori che quell’obbedienza, che mi è costata, mi ha formato in un modo tale che non ci sarei riuscito da solo. Cioè vedo il lato positivo di quell’obbedienza che mi è costata tanta fatica e impazienze, ma non mi ha indebolito nella volontà: anzi, al contrario.
L’altra condizione è la castità: quanto è faticosa?
Anche qui non ci sono davvero altre motivazioni che giustifichino un impegno del genere se non l’accompagnamento del Signore, che è molto gratificante, perché passa anche attraverso le esperienze meno facili. A chi oggi afferma che il celibato non è necessario, dico che che una vita sacerdotale che non viva questo aspetto forte e scandaloso rischia di annacquarsi e di perdere molto del suo potenziale: rischia cioè di essere una testimonianza che in fondo non è così eloquente.
Giorgio Malavasi