Una mattina di un sabato qualunque è stata sufficiente per avere un assaggio dell’inferno in terra, non è servito fare molta strada, sono bastate alcune centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di Mestre, dove si può incontrare qualcuno dei tanti dannati che questo inferno lo vivono tutti i giorni, fino a sprofondarci inesorabilmente, schiacciati dalla dipendenza dalla droga.
È qui che incontro Marco, un ragazzo di 36 anni, ancora bello nonostante il viso scavato, con uno sguardo triste, ma gentile. Siede per terra appoggiato a un muretto, mentre davanti a lui sfrecciano ciclisti e monopattini elettrici e le persone lo schivano come fosse un ostacolo sul loro percorso. E’ seduto rivolto al sole, con gli occhi chiusi e le maniche di un piumino liso arrotolate, di fianco a lui uno zainetto e un cumulo di rifiuti segno di un pasto frugale.
Alza la testa verso la luce esausto, con un espressione che ricorda il Cristo nella Deposizione Borghese di Raffaello. A scatti poi si tocca compulsivamente la piega dell’interno del braccio, rimasta celata dal piumino, mentre tiene in mano una siringa vuota. Le mani gonfie gli tremano, ma stringe quella siringa come se fosse l’unica arma che ha contro la sua sofferenza.
«Tutto è iniziato con quel maledetto incidente», racconta: «Lavoravo al Tronchetto e un muletto mi ha distrutto la testa del femore; mi è rimasta una gamba più corta, non avevo un contratto, ero in nero, guarda come mi ha ridotto questo sistema». Di fianco a lui due stampelle, talmente consumate che il metallo ha bucato la gomma alla loro estremità.
«Prima avevo una vita normale, sono di Venezia, vivevo in affitto, poi l’incidente, ho perso il lavoro, mia madre ha avuto un esaurimento nervoso ed è ricoverata in clinica, io non ho retto, non ce l’ho fatta». Non so se quello che mi racconta è vero, ma nonostante la sua discesa nel baratro, mi assicura che due giorni a settimana va a lavorare ed è così che si paga la roba. Mi piacerebbe tanto credergli, sperando che qualcuno possa ancora dargli fiducia, ma è difficile pensare che in quelle condizioni riesca a lavorare.
Emana un odore molto forte e non è solo per la mancanza di pulizia. Ha un tallone e la gamba destra gonfi, forse per il freddo, ma quando le mosche iniziano a girare intorno, cercando un foro nei pantaloni di cotone, inizio a temere che abbia una forte infezione in corso. Il giorno dopo scopro che la gamba sta andando in cancrena e deve essere amputata e che Marco, che non si chiama così, ha rifiutato il ricovero, in un vortice autolesionista.
Mentre parliamo si agita, probabilmente è in astinenza. Una signora si avvicina, ha appena fatto la spesa e apre una delle sue borse per dargli qualcosa da mangiare, lui stizzito ma con garbo le risponde: «Non voglio niente signora, non voglio da mangiare, vado già alla mensa di Ca’ Letizia, vorrei solo che qualcuno mi aiutasse a risolvere lo stato in cui mi trovo». A vederlo così magro e pallido è difficile pensare che pesasse 80 chili, mentre adesso a stento arriverà a 60.
Un paio di pusher vanno avanti e indietro per capire se ha dei soldi per comprarsi una dose, lui cerca di resistere aprendo ogni tanto gli occhi alla luce. Inizia a tremare e si copre con uno sciarpa-collo di lana nonostante il tepore di inizio marzo. Non riesce a piegare la gamba buona, deve aiutarsi con le mani e ogni movimento gli procura dolore. Qualcuno gli tende 10 euro, lui ringrazia con educazione e sempre con le mani che tremano li tiene stretti al petto.
I pusher hanno visto la scena, sono pronti a vendergli un po’ di morte, iniziano a muoversi e a comunicare fra di loro, mentre i passanti continuano il loro percorso verso la stazione senza curarsi di quel fagottino umano che si fa sempre più piccolo rannicchiandosi sotto al cappuccio. Qualcuno prova a chiamare l’unità di strada e il drop in di via Giustizia, ma risponde solo la segreteria telefonica. Dimenticano che oggi è sabato, un sabato qualunque.
Massimiliano Moschin
Mestre, baratro droga in via Piave: la storia di Marco
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