Un periodo analogo, Enrico Cassandro non lo ricorda proprio. L’aumento esponenziale del costo di mais e soia da un lato, entrambi alimenti primari negli allevamenti, quello di elettricità e gasolio dall’altro. In una situazione del genere, far quadrare i conti appare una vera impresa per gli allevatori di vacche da latte come lui, la cui attività che gestisce a Dolo conta ben 160 capi. Non a caso c’è chi ha già deciso di arrendersi dinnanzi ad un sistema incapace di tutelare la fatica e il sacrificio messo in campo giorno dopo giorno.
«Nel Trevigiano, dove vi sono aziende impegnate sia nel settore delle vacche che nella produzione del prosecco, – racconta il presidente della sezione latte Confagricoltura Venezia – in molti hanno deciso di chiudere la prima attività, in quanto coprirne i buchi economici grazie alla seconda non avrebbe alcun senso». Chiusure definitive, s’intende: se le vacche da carne, una volta vendute, potrebbero un giorno essere facilmente rimpiazzate, non vale infatti lo stesso per quelle da latte.
«E in questo modo sparisce pure una certa economia circolare. Si pensi infatti alle deiezioni degli animali, che producono letame, fertilizzante per il terreno con tante importanti funzioni», chiarisce Cassandro, fornendo qualche cifra, inevitabilmente condizionata dal conflitto in Ucraina. Il mais è passato dai 31 euro ai 44-45 al quintale, con un conseguente aumento del 120-130% nel giro di un paio d’anni, quando questo tipo di farina valeva 20 euro circa. Destino simile per quella di soia, ad un +100% rispetto a due anni fa. Esattamente come i prodotti proteici (o altri cereali), che hanno subìto un incremento addirittura raddoppiato rispetto alla norma. E la vera nota dolente è che il costo del latte è rimasto pressoché invariato: nessun aumento durante la pandemia (ma anzi, una tendenza a calare), mentre da ottobre è arrivato a salire solo intorno al 10%, «quando invece avrebbe dovuto raggiungere almeno il 30% in più», per riuscire a far bilanciare i conti. In altre parole, da 35-36 centesimi al litro si è passati ai 41 attuali.
«Il problema è a monte, nel senso che la politica dovrebbe intervenire stabilendo determinate regole, altrimenti per il produttore il rischio è il collasso. Non dimentichiamo poi il problema della siccità, quest’anno spaventosa, che sta portando a registrare una conseguente carenza idrica in prodotti come il grano seminato e in altre colture autunno-vernine, come il loietto seminato, con rischio di perdite importanti già da maggio». Un contesto in cui alcune aziende hanno già scelto di limitare il numero di animali, abbattendo i meno produttivi, anche in considerazione del fatto che il valore della carne è di un po’ migliore rispetto al solito. «Le aziende possono contare spesso anche su degli auto-approvvigionamenti, magari di mais, tanto da ritrovarsi costretti a diminuire il numero di vacche per evitare di dover fare acquisti extra. Oltretutto voci che circolano parlano di una situazione che, se dovesse persistere, porterebbe ad un ulteriore rischio: al di là del costo elevato dei prodotti, nei prossimi mesi potrebbero addirittura mancare dal mercato».
D’altronde il mais da noi arriva specialmente dall’Ucraina. E il motivo va ricercato nel clima più favorevole rispetto al nostro. «Personalmente sto cercando di resistere – analizza Cassandro – ma se tutto questo si protrarrà ancora a lungo, le decisioni drastiche, come la chiusura, saranno inevitabili per molti». Altro tema, non meno trascurabile, quello dei fertilizzanti. «Il loro prezzo ora è tre volte quello dell’anno scorso e i fornitori ci dicono che l’urea non arriverà più dalla Russia. Queste le conseguenze: andremo a seminare del mais che produrrà poco o nulla». Criticità a cui si somma quella dell’aumento dei costi di elettricità e gas.
Marta Gasparon