Si chiamano Desta e Solomon, uno ha 40 anni e l’altro ne ha 28, e vivono attualmente nella Casa studentesca S. Michele di Mestre.
Si sono già laureati nel loro Paese in Ingegneria civile ma ora stanno integrando i loro studi a Venezia attraverso un master (della durata di un paio di anni) allo Iuav che li sta conducendo ad approfondire temi e questioni di urbanistica e ingegneria ambientale.
Sono entrambi eritrei e sono arrivati qui da Addis Abeba in Etiopia nel settembre scorso attraverso il progetto dei “Corridoi Universitari” (vedi sotto). Li caratterizza la scomoda condizione di “rifugiato” e il fatto di essere dovuti fuggire, per ragioni di sicurezza e quindi di… vita, dalla loro patria d’origine (l’Eritrea, appunto) devastata da una sorta di stato di guerra permanente e dal regime dittatoriale che la governa.
«Solo studiando posso aiutare il mio Paese». «Sono nato e cresciuto in Eritrea – esordisce Desta, con l’aiuto della traduzione effettuata da un mediatore linguistico – nel 2002 mi sono diplomato alla scuola tecnica di Asmara e poi nel 2011 mi sono trasferito in Etiopia dove sono rimasto fino al 2020 e mi sono laureato in Ingegneria civile. Viste le difficoltà non solo di lavoro ma anche di sicurezza che esistono lì, nei centri di accoglienza, e grazie all’opportunità di questa borsa di studio, ho deciso di venire a Venezia».
Il più giovane, Solomon, racconta di aver fatto più volte la drammatica spola tra l’Eritrea (Paese di cui è originario) e l’Etiopia (dove ha completato gli studi superiori e universitari divenendo pure lui ingegnere civile): «Io ho sempre amato studiare, da quando ero piccolo, e so che solo studiando posso aiutare il mio Paese e la mia famiglia».
Durante la conversazione affiorano alcuni particolari della loro condizione di rifugiati: «Lì non ci sentivamo sicuri, avevamo paura di essere ricercati e riportati in Eritrea», aggiungono all’unisono e parlandone, anche per ciò che è successo a loro amici e connazionali, fanno capire che è stata, praticamente, una questione di vita o di morte.
Ed emergono anche ripetuti episodi di violenza perpetrati, spesso da soldati, ai danni di parecchie religiose; fatti terribili che, soggiungono, non dovrebbero lasciare indifferenti quei popoli – italiano ed europeo in primis – che condividono la loro stessa fede.
«La patria è come la mamma…». Ma che cosa significa per loro essere un “rifugiato”? «Il rifugiato – spiega Desta – è una persona che scappa per non morire. Ed è anche una persona che manca di qualcosa, non si sente ancora completa ed è in ricerca. E per anche per questo che si sposta da un luogo all’altro. Per me questa condizione ha rappresentato, comunque, anche un vantaggio: mi ha dato, infatti, l’opportunità di continuare gli studi, prima in Eritrea e ora qui a Venezia».
Per Solomon il rifugiato è «una persona fragile, non ancora soddisfatta e dalla vita piena di difficoltà e di ostacoli: ogni volta che ne supera uno se ne presenta subito un altro…».
Ricordano entrambi la loro patria, l’Eritrea, e i loro connazionali. Desta osserva che c’è una grande differenza tra chi ha vissuto questi ultimi tragici trent’anni e le generazioni precedenti: «La mia generazione è fatta da persone che – a causa del sistema politico – sono isolate da tutto il mondo, non hanno il diritto di parlare o di studiare, di progettare la loro vita. E si sono viste sottrarre tanti diritti fondamentali». Solomon dice che «la patria è come la mamma e perciò, anche quando si diventa grandi, la mamma rimane unica e ti manca. Non te la puoi dimenticare, perché nasci da lì».
Per gli eritrei, ovviamente, l’Italia non è sconosciuta, dati i legami coloniali antichi ma ancora forti nel cuore della popolazione, ed anzi il nostro Paese – con la sua vita e cultura – è ben noto e apprezzato per tanti aspetti.
Si trovano ottimamente da noi e dicono: «Qui siamo stati accolti bene e non ci manca nulla». Certo, hanno patito abbastanza il freddo, per loro inusuale, dei mesi scorsi e rimpianto il clima più caldo delle loro parti… Solomon, poi, ha qualche nostalgia del suo popolo, «affettuoso e accogliente», ma è sempre molto colpito e ammirato dalla città di Venezia, per come è stata costruita e curata; le uniche cose che non gli piacciono della vita qui sono l’eccessivo consumo di alcol e la scarsa propensione degli italiani ad imparare altre lingue.
«Al mio Paese auguro solo la pace». Quanto a Desta, ha qualche nostalgia «dei luoghi, della comunità e delle persone» del suo Paese ma gli piace moltissimo vivere in Italia, «nazione ben sviluppata e con un popolo gran lavoratore», anche se ci sono (troppo) pochi giovani.
Come immaginano il loro futuro? In un mix di lavoro e formazione continua, nel commercio o nel settore dell’ambiente. Dove? «Non lo sappiano – affermano insieme -. Potrebbe essere in Italia, in Etiopia, in Africa o in altre parti del mondo…». Sono entrambi cristiani – copti ortodossi – e dunque è naturale chiedere a Desta e a Solomon, a pochi giorni dalla Pasqua, un augurio speciale da rivolgere alla loro vita e da indirizzare anche ai lettori di Gente Veneta. Solomon esprime l’auspicio che Pasqua «sia soprattutto un modo per avvicinarsi a Dio. E poi, come avviene in ogni festa, che le persone si possano riunire e stare insieme (Covid permettendo… – n.d.r.) e così, parlando tra loro, possano interagire e cambiare il loro futuro. A me auguro di completare bene gli studi e di poter sempre ringraziare Dio».
Desta, infine, augura al popolo italiano «che la Pasqua sia la festa del cambiamento e porti a tutti una benedizione; è un popolo che sta lottando e soffrendo molto a causa del coronavirus. A me e al mio Paese auguro semplicemente la pace. Quella ci manca parecchio».
Alessandro Polet