Una quindicina di giovanissimi teppisti, tra cui alcune ragazze – e quasi tutti senza mascherina – hanno preso a calci un tram e un semaforo in piazzale Cialdini. È successo la settimana scorsa a Mestre.
Altri coetanei, nei giorni passati a Venezia, si sono esibiti in lanci di uova contro i passanti, falò con i cartoni delle pizze, consumo di droghe e alcol… Ed episodi simili, a volte anche violenti e con pestaggi, sono dei mesi scorsi.
È il fenomeno crescente delle bande di ragazzi, delle baby gang, come si usa chiamarle. GV se ne occupa nel suo approfondimento. Quel che colpisce è che, a detta degli educatori che provano a rimettere in carreggiata i giovani teppisti che vengono loro affidati, questi ragazzi sono sempre più dei “disabili empatici”: cioè persone che fanno molta fatica a immedesimarsi nelle ragioni dell’altro. In pratica, lo vedono come un oggetto, uno dei quei nemici che nei giochi al cellulare vengono colpiti e subito dopo se ne presentano altri. Ma quelli sono finti…; i coetanei pestati, invece, sono veri e provano paura e dolore. Ma chi li prende a botte spesso non se ne rende conto.
È un esito negativo del nostro tempo, probabilmente anche del fatto che siamo sempre più immersi in realtà virtuali. E uno schermo ha due dimensioni: gli manca lo spessore della vita.
È allora sempre più urgente che la società tutta, ma con piena consapevolezza la comunità cristiana, si dia da fare in un’azione educativa.
Si tratta di fare con maggiore determinazione quello che si dovrebbe fare comunque sempre: cioè l’ordinaria manutenzione delle relazioni fra le persone. Ovvero insegnare a bambini e giovani – e ricordare agli adulti – che l’altro è un soggetto, che sente, patisce e pensa quanto te.
Si tratta, insomma, di insegnare (e imparare) la compassione, letteralmente il sentire insieme. È l’insegnamento paolino della Lettera ai Romani: «Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono». Si tratta di considerare gli altri per quello che sono: persone vere. Ascoltandole, quindi, nelle idee e nelle emozioni, e condividendo.
Può essere un impegno da prendere soprattutto in questo tempo in cui la scuola virtuale si unisce al mondo virtuale dei cellulari, di cui gli adolescenti sono frequentatori accaniti. Un tempo di bulimia virtuale.
E quale strumento usare per fare manutenzione delle relazioni e insegnare la compassione? Quello che ci pare più efficace è la testimonianza. Cioè raccontare in prima persona e in presenza (appena possibile) umanità e storie importanti di vita vissuta ai tantissimi ragazzi che non arrivano a limiti da baby gang, ma che rischiano di intorpidirsi e anestetizzarsi in un mondo finto fatto di schermi.
Giorgio Malavasi