I più lo conoscono per canzoni come “Io che non vivo” o “Come sinfonia”. Altri lo ricordano per essere uno dei più grandi compositori di colonne sonore per cinema e fiction. È Giuseppe, per tutti Pino, Donaggio, veneziano (ma buranello di nascita) e residente nel centro storico da sempre, salvo una parentesi negli Stati Uniti. La sua sola canzone “Io che non vivo” tra cover e varie versioni di artisti di calibro internazionale, è arrivata a superare gli 80 milioni di copie nel mondo. Presentata al festival della canzone italiana di Sanremo nel 1965, “Io che non vivo” (a cui molti aggiungono, come nel seguito del ritornello, “senza te”) è stata cantata e re-interpretata da cantanti del calibro di Jody Miller, Dusty Springfield, Elvis Presley. Dal ’74 in poi si è dedicato alla musica per il grande e il piccolo schermo, firmando le colonne sonore per grandi registri, come Brian De Palma, Dario Argento, Pupi Avati, Nicolas Roeg, Michele Placido.
Pino Donaggio e Venezia. Come ricorda la Venezia della sua giovinezza?
Sono nato a Burano nel ’41: questo perché mia madre è andata a partorirmi a casa di mia nonna, come spesso si faceva: sono stato a Burano una settimana e poi sono stato portato a Venezia, dove sono cresciuto, a Rialto in calle del Figher. Fino ai 16 anni e mezzo, circa, sono rimasto in città per poi andare a vivere a Milano, per studiare al Conservatorio. La mia è una famiglia di musicisti: mio padre Italo aveva una sua orchestra, avevo uno zio primo flauto alla Fenice, anche il nonno era musicista, avevo altri zii che suonavano nei caffè di piazza San Marco, come il Quadri. Sono profondamente legato a Venezia, al suo mondo artistico, penso ai molti amici pittori, come Guidi, Ulisse, Gianquinto, tutti veneziani. Ricordo che da piccolo nelle osterie andavo a vedere la televisione e mi portavo la sedia da casa e così ho visto i primi festival di Sanremo: non immaginando che ci sarei andato ben 10 volte… Giocavo anche io nelle calli, graffiato da qualche gatto randagio, giocando ai pirati…
Una Venezia che non c’è più…
Sì, purtroppo tutte le amministrazioni comunali, tutte, hanno sempre favorito il turismo di massa. Tuttavia comprendo il dramma di chi oggi non ha lavoro, quando saltano i posti di lavoro la vita si blocca. Il turismo di massa era un handicap per Venezia, ma ora si devono trovare soluzioni, individuare un equilibrio e favorire un turismo diverso. I veneziani prima si sono trasferiti a vivere a Mestre, ora anche a Mogliano o ancora più distante. Prima del Covid il sindaco di Barcellona disse che non voleva che la sua città diventasse come Venezia: secondo me aveva ragione.
Come è arrivato a Milano?
È andata più o meno così: dagli 11 anni in poi ho cominciato lo studio del violino al Conservatorio di Venezia, dove ero stato notato e preso da Luigi Ferro, docente che di solito non voleva studenti prima del V corso. Puntava molto su di me come solista. Ferro era primo violino in una formazione orchestrale diretta dal Maestro Fasano, che era anche direttore del Conservatorio veneziano. A seguito di una lite con lui, Ferro chiese il trasferimento a Milano… e mi ha voluto con sé. La mia famiglia mi ha trovato una camera da una signora e ha fatto molti sacrifici per farmi studiare.
E a Milano è iniziata la carriera musicale…
Beh, già a Venezia spesso giudicavo le partiture che mio padre Italo portava a casa: “Papà questa la devi suonare, questa meglio di no…”. A Venezia amavo già portare i capelloni ben prima delle mode e ballavo il rock and roll. Mi sono esibito anche al “Kuursal” di Auronzo di Cadore e in alcuni locali tra Venezia e Milano. Ho cominciato poi ad esibirmi anche con l’orchestra di mio papà a Mestre, in un locale dove suonavano, il “Cristallo”, che ora non c’è più. Cantavo e mi applaudivano e mio papà diceva: “Ti applaudono perché sei mio figlio…”. Cantavo anche canzoni di Paul Anka. Nei viaggi in treno tra Venezia e Milano, per andare al Conservatorio, spesso componevo su temi che mi venivano in mente. Ho scritto in quel periodo alcune canzoni, ad esempio per Laura, la fidanzata che avevo in quegli anni.
Quando la svolta decisiva?
Un giorno che ero a Milano e avevo delle ore libere: decisi di andare alla casa musicale “Curci”, che era l’editore di Domenico Modugno, dove mi sentì un certo Bruno Pallesi, produttore, il quale poi mi presentò così: “Vi ho portato il nuovo Paul Anka”. A quel punto il direttore, il dott. Ricci, mi disse: “Ti faccio un contratto da compositore, ma devi far venire tuo padre a firmare”… ero ancora minorenne. Per un paio di anni ho continuato a studiare, poi ho scritto “Come sinfonia” e da lì è partito tutto. Era il 1961.
Quando è iniziato il lavoro con il mondo del cinema?
Una mattina rientravo da una serata, erano le 6, avevo sonno, in vaporetto mi sono messo seduto fuori, a prua, da solo, eravamo in Canal Grande. Mi ha visto Ugo Mariotti, regista, che stava facendo un film di parapsicologia: mi ha visto “come una immagine mandata dall’aldilà” (alle 6 di mattina… non so cosa facesse fuori a quell’ora, avrà fatto nottata pure lui), poi mi disse: “Vorrei presentarti ad un regista” e mi mise in contatto con la produzione di un film che stavano facendo a Venezia, con Julie Christie e Donald Sutherland, il regista era Nicolas Roeg… pensai: “Ma è possibile che chiamino proprio me per fare un film con Julie Christie”? Mi chiamano e ho fatto due o tre temi e li hanno montati subito nel film in una scena d’amore. Mi hanno chiamato poi a Londra per tutta la musica. Con quel film ho vinto la miglior colonna sonora dell’anno a Londra; così ho cominciato a non cantare più, era il 1973 (ma il film uscì l’anno successivo). Il titolo del film è “Don’t Look Now” in italiano “A Venezia… un dicembre rosso schoking”. Da allora tra film e fiction ho composto per circa 240 produzioni, di cui una ottantina statunitensi.
Che differenza c’è tra comporre una canzone e comporre per il cinema?
Sono più di quarant’anni che scrivo per il cinema. E comporre colonne sonore è molto più impegnativo. Riempire 40 o 45 minuti o anche più di un’ora di un film con musica non è semplice, perché la musica deve accompagnare e rendere espressiva la scena. Ma comporre per il cinema ha dato la possibilità alla mia musica di poter uscire dall’Italia. “Io che non vivo” è ancora un successo internazionale: con il cinema la mia musica è andata ancora di più nel mondo, ed era quello che volevo. Un giorno mi trovavo a Parigi con la famiglia, e fuori dei cinema ho trovato ben cinque cartelloni di film con musiche mie. In Giappone ho avuto molte incisioni…
Quale è la sua colonna sonora preferita?
Ho amato molto lavorare con Brian de Palma: con lui ho fatto otto film, e sono tutte colonne sonore che amo, perché non avevo limiti di mezzi e di budget, ho scritto quello che volevo e quello che potevo. Direi che una delle scene preferite è quella del museo in “Dressed to kill”- “Vestito per uccidere”, del 1980, in cui il vero protagonista della scena è la musica. Musicalmente però credo che la colonna sonora in cui ero più maturo sia “Blow Out” sempre di De Palma. L’ultimo film che abbiamo fatto insieme due anni fa è “Domino”.
Nella carriera sono stati molti i riconoscimenti…
Sì, diversi premi e nominations. Ho vinto due volte il Golden Globe per colonne sonore (nel ’96 e nel 2018) e il premio Tenco nel 2019, come anche i David di Donatello. Ecco… il premio Tenco mi ha fatto molto piacere. Ho conosciuto Luigi Tenco e c’ero anche io a Sanremo quell’anno del suicidio, concorrevo con una mia canzone. A distanza di tutti questi anni è stata una cosa significativa. Diversi cantanti a Sanremo hanno interpretato le mie canzoni e ho fatto anche un’intervista sul palco. Per me, dopo Venezia, viene Sanremo: ha significato veramente tanto per me.
Come giudica lo “stato della musica” di oggi?
Le canzoni di Modugno, di Teddy Reno, e quindi anche le mie, venivano tutte dal melodramma, dall’opera e dalle romanze: queste canzoni sono quelle che sono andate nel mondo e che si cantano ancora oggi. Non esportiamo più musica italiana, se non forse Bocelli; se vedi su internet le cover delle mie canzoni c’è una lista che non finisce più. Adesso invece ti danno il disco d’oro con 25.000 copie. A miei tempi era più importante la musica, la melodia, contava il tema. Quando hanno cominciato ad esser più importanti i testi, con autori che però facevano ancora musica significativa, è cominciato il cambiamento. E sempre più la musica italiana ha iniziato ad essere poco esportata all’estero. Quale è il cantautore che oggi trova più interessante?
Tiziano Ferro sicuramente: la mia opinione è che Modugno ha cambiato la canzone, Battisti l’ha cambiata ancora come struttura, senza più strofa e ritornello. Tiziano Ferro ha cambiato ancora la forma. Mi sembra il più attuale e quello che mi piace di più. Sicuramente in Italia tutti discendiamo da Modugno, che ha impresso la prima svolta alla canzone italiana. Ma oggi il più innovativo ed interessante mi sembra proprio Tiziano Ferro.
Marco Zane