Il problema dell’Italia non è di avere il debito pubblico più alto mai registrato dall’unità, cioè dal 1860 in poi: l’anno prossimo raggiungeremo probabilmente il 160% del Pil, cosa che neanche durante la Grande Guerra (allora toccammo il 158%) ci era riuscito di fare.
Il problema del Paese è riuscire a spendere bene i 200 e passa miliardi che l’Europa generosamente ci dà con il Recovery Fund. Riusciremo, in sei anni, a spenderli in maniera efficiente? Cosa ci garantisce dal non sprecarli? Ce la faremo a trasformare questi soldi in investimenti produttivi, che facciano crescere l’economia, le imprese e l’occupazione?
Sono queste alcune delle argomentazioni portate da Carlo Cottarelli durante uno degli incontri in videoconferenza che, da alcuni mesi, vengono organizzati – il martedì – dal Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
Cottarelli, Presidente del Consiglio incaricato per poche ore, “mister spending review” e oggi direttore dell’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, ha ragionato sulla sostenibilità del debito pubblico, in crescita sostenutissima in questi mesi a causa dell’emergenza Covid.
Due i messaggi di fondo. Il primo è che l’attuale debito da record non è tragico quanto potrebbe sembrare. Le ragioni? La prima, spiega Cottarelli, è che pochi anni fa, nel tempo della crisi del 2008, il 50% del debito pubblico italiano era in mano a investitori internazionali. «Ora siamo scesi al 30% e intanto, entro il prossimo anno, un altro 30% sarà detenuto dalle istituzioni europee, in primis dalla Banca centrale europea, che sta comprando titoli di Stato e continuerà a farlo fino a tutto l’anno prossimo. Il vantaggio che che il debito nei confronti delle istituzioni europee è meno volatile e non ci costa niente».
Per intenderci: se l’Italia emette un Btp, il mercato glielo compera ma strappa un interesse (attualmente) dello 0,76%. Se l’Europa emette, come ha iniziato a fare, un eurobond, il mercato è disposto ad accettare un interesse negativo dello 0,24% pur di acquistarlo.
Un punticino tondo: chiaro, perciò, che ci conviene: «E così anche i debiti nei confronti dell’Unione europea, legati al Recovery Fund o al fondo Sure per l’occupazione o al Mes per la sanità sono a tassi d’interesse negativi. Ogni 100 euro che l’Europa ci dà con Sure per finanziare la cassa integrazione, noi dovremo restituirne, fra dieci anni, 97».
Insomma: nella disgrazia del Coronavirus, la fortuna di poter fare debito non particolarmente gravoso.
Poi c’è un altro “miracolo” la cui portata non è stata probabilmente sottolineata a dovere: lo rileva Loriana Pelizzon, professoressa di Economia Finanziaria a Ca’ Foscari, in dialogo con Cottarelli: «Era impensabile, solo sei mesi fa, che l’Europa facesse debito per sostenere i Paesi più in difficoltà, a partire dall’Italia. Invece, per la prima volta, si è passati da una logica di debito pubblico nazionale a una di debito pubblico europeo».
Una svolta solidale storica, che ha permesso la creazione del Recovery Fund, che porterà, entro il 2026, la bellezza di 209 miliardi al nostro Paese, una sessantina in forma di contributi a fondo perduto e gli altri come prestito.
«E il bello è – ricorda Loriana Pelizzon – che il 20 ottobre scorso c’è stata la prima emissione di eurobond, per un valore di 17 miliardi; su di essa si è concentrata una domanda di 233 miliardi di euro. E il tasso d’interesse è stato negativo, dello 0,24%. Quindi gli eurobond sono strumenti che i mercati finanziari apprezzano molto».
Allora il problema vero – sostiene Michele Bernasconi, professore di Scienza delle finanze e direttore del Dipartimento di Economia dell’ateneo veneziano – è riuscire a spendere bene questi non pochi danari che l’Europa ci concede a condizioni vantaggiose.
È esattamente così, concorda Cottarelli. Ora dipende dal Recovery Plan che il Governo italiano presto presenterà all’Unione europea. E ancor più dalla capacità di attuare i progetti del piano: «Oltre alla realizzazione di infrastrutture green e digitali – elenca Carlo Cottarelli – c’è la necessità di riformare ed efficientare la pubblica amministrazione. Bisogna cambiare la mentalità del personale e il suo modo di operare: occorre lavorare per dare risultati, non per rispettare la forma delle norme. Poi bisogna spendere bene nella scuola e nell’università; non è una priorità, per esempio, aumentare il numero degli insegnanti. Noi non abbiamo classi pollaio: sono più piccole di quelle che hanno la Francia, la Germania o l’Inghilterra. Semmai abbiamo insegnanti poco pagati, poco addestrati, precari, senza distinzione fra bravi e non bravi. Ma aumentarli di numero non serve. Poi ci serve – conclude Cottarelli in questo che è un veloce ed acuto piano di riforma del Paese – abbiamo una giustizia civile lenta, che scoraggia gli investimenti privati; e una giustizia penale, amministrativa e tributaria che altrettanto vanno sveltite ed efficientate». Insomma: quasi un programma di governo che, se realizzato, consentirebbe di non sentirsi tropo gravati da un debito pubblico mai visto prima.
Giorgio Malavasi