«Sono stata ad un passo dalla morte due volte, ma il Signore ha scelto per me la vita». Martina Siebezzi, 58 anni, neo presidente della San Vincenzo de Paoli – Consiglio centrale di Venezia, di momenti complicati ne aveva già vissuti in passato: prima un grave incidente in macchina che l’ha portata alla sostituzione di una vertebra e di due dischi del collo, rimanendo paralizzata per lungo tempo. Poi un’embolia polmonare che l’ha fatta smettere di respirare finché il marito non l’ha rianimata.
E ora, appena il tempo di prendere le redini di una realtà associativa che conta oltre cento confratelli e assiste centinaia di famiglie in difficoltà, che a scombussolare la sua vita è arrivato il Coronavirus.
Il ricovero. Perché Martina, residente nella zona di S. Marziale e della parrocchia della Madonna dell’Orto, mesi fa è risultata positiva al tampone. Una doccia fredda, anche se non inaspettata. I sintomi iniziali – dolori muscolari alle gambe, mal di testa e una febbre sempre più alta, arrivata anche a 38.8 – già l’avevano messa in allarme.
Lei, farmacista di professione, sposata con un medico, che il virus l’avesse colpita lo aveva capito, nonostante l’assenza di tosse e starnuti. Tanto da decidere di chiudersi in camera, isolata dalla sua famiglia (oltre al marito c’erano in casa madre e figlio), stesa su un letto dal quale faticava a scendere. «Finché, dopo quattro giorni di febbre alta, – racconta – ho chiamato il 118 e mi hanno ricoverata. L’aspetto più triste? Vedere che arrivano in casa tua bardati, portandoti via senza la possibilità di avere i parenti accanto. Certo, io almeno a casa ci sono tornata, ma altri no».
La fede, un punto fermo. Entrata al Civile il 25 marzo, ne è uscita 23 giorni dopo. «All’inizio mi hanno portata al padiglione Jona, dove avevano creato un reparto d’isolamento per i pazienti in attesa dell’esito del tampone. Mentre il giorno dopo mi hanno trasferita agli Infettivi». Eppure, nonostante la criticità della situazione, Martina confessa di non aver mai avuto paura. «La morte in quanto tale è qualcosa con cui ho dovuto fare i conti più volte. Le cose vanno come devono andare, gli uomini fanno del loro meglio, poi al resto ci pensa Lui», dice, sottolineando come in quelle giornate ormai alle spalle la fede sia stata sempre un punto fermo. Qualcosa di essenziale.
«Mio padre, che ho perso da poco, era un uomo di fede assoluta che si affidava alla volontà del Signore. Da un lato mi ha trasmesso la voglia di vivere, di vedere sempre il lato buono delle cose. Dall’altro un senso di protezione che viene dall’alto». I primi due giorni Martina li ha passati in isolamento, con maschera per l’ossigeno, febbre alta e dolori diffusi. Infermieri e medici entravano e uscivano dalla stanza, irriconoscibili a causa delle protezioni indossate, e parlavano per rincuorarla, potendo rimanere lì solo lo stretto necessario. «Sì, perché questo virus ti rende pericoloso per gli altri. Sono stati due giorni in cui mi sono ritrovata ancora una volta faccia a faccia con la mia fragilità fisica, immersa nel nulla di questa malattia che non ha confini: sai quando inizia, non sai quando sarà la fine».
Una malattia segnata dalla solitudine. Ma in tutto questo, una compagnia preziosa – in una condizione di solitudine assoluta – c’è stata. Il rosario da Lourdes, seguito ogni sera attraverso il cellulare. Poi è arrivato il terzo giorno, in cui Martina si è ritrovata a condividere la stanza con una paziente novantenne, col casco Cpap. Allora ecco che assistere impotente a ciò che le accadeva accanto, «ha oscurato il mondo. Notte e giorno non avevano distinzione. La luce era sempre accesa e il rumore dell’ossigeno mio e suo si confondevano. Due settimane dopo gli infermieri mi hanno detto che la donna non ce l’aveva fatta, è morta sola come tutti quelli che in questo periodo ci lasciano».
Ed è proprio questo, per Martina, l’aspetto più drammatico del Covid-19: la solitudine. Legata anche al non poter fare la Comunione. «Questo virus colpisce tutto il tuo corpo, i miei esami erano sballati. L’ossigenazione ad un certo punto ha iniziato a scendere così mi hanno dato un farmaco sperimentale (quello anti-artrite reumatoide) associato ad altri. E i risultati hanno iniziato a vedersi. Dopo 20 giorni ho sospeso l’ossigeno e dopo altri 3 sono tornata a casa». Un momento tanto felice anche se non facile, poiché quanto vissuto gli altri non riescono a percepirlo davvero. «Ora sto bene. Ma al mio rientro ero provata fisicamente. Ho dovuto prendermi del tempo per mettere insieme tutto ciò che ho provato nella testa durante il ricovero».
Marta Gasparon