«Farsi servi e dare la vita per gli altri, perché così ha fatto Gesù e così possiamo fare anche noi: qui mi pare ci sia la sintesi del Vangelo e questo pensiero è al cuore della mia vocazione». Don Daniele Cagnati spiega così ciò che è essenziale nel percorso che avrà suggello sabato 27 quando il Patriarca Francesco, nella basilica della Salute, lo ordinerà sacerdote, insieme a don Augusto Prinsen.
«Ho sempre pensato – spiega don Daniele – che il Signore volesse servirsi di me per la sua Chiesa e la sua gente. Anche quando io non accettavo questa cosa, intuivo che era al fondo di tutta la mia storia».
Da bambino, la Messa “rifatta” a casa. Una storia che ha largamente a che fare con Jesolo, la città dove Daniele è nato, nel 1988, e ha vissuto infanzia e giovinezza. Il papà, in realtà, è originario di un paesino fra Caviola e Falcade, ma il lavoro in Polizia lo porta subito nel Veneziano: per 35 anni poi, fino alla pensione, sarà in servizio all’aeroporto Marco Polo di Tessera. Ma la vita familiare la trascorre tutta a Jesolo, dato che sposa una jesolana doc.
La vita di Daniele ha a che fare subito con la parrocchia, non solo perché basta fare duecento metri e passare un ponte per trovarsi in chiesa e in patronato, a San Giovanni Battista, ma perché quella è l’aria che si respira in famiglia e tra i coetanei.
Sono gli anni in cui è parroco don Paolo Donadelli e il cappellano è don Daniele Memo, «che era, tra l’altro, anche un bravissimo calciatore», ricorda don Daniele.
Quelli sono comunque anni che Daniele trascorre come tanti altri bambini e ragazzi, senza che si manifestino particolari segni vocazionali. C’è solo un episodio che, letto con le lenti di oggi, ha un certo valore: «Me l’ha ricordato mia sorella: quando tornavamo da Messa, da piccoli, portavo a casa il foglietto della liturgia. E a casa ripetevamo la Messa: io facevo il prete e mia sorella leggeva le letture. Questo episodio non l’ho più ricordato per tanto tempo, ma oggi acquista un sapore particolare».
Un segno più concreto risale a quando Daniele ha 17 anni: «Da noi, a Jesolo, c’è tradizione che si comincia a fare i chierichetti in terza-quarta elementare; ci sono però ragazzi che continuano da grandi, alle superiori e anche all’università. E vedere ragazzi che erano lì, all’altare, mi attraeva. Così ho iniziato anch’io».
Una questione da “sotterrare”, ma che riaffiora. Sarà stato anche che ci sono altri ragazzi, appena più grandi, come Morris Pasian e Riccardo Redigolo, che stanno manifestando un interesse profondo per la fede e la Chiesa, fatto sta che anche Daniele inizia a maturare qualche pensiero: «Poi la cosa si ferma lì e passano altri otto anni prima che io entri in Seminario. Questa domanda, in realtà, si faceva sentire ogni tanto, ma mi mancava il coraggio di prendere una decisione; ogni volta avvertivo che il Signore aveva bisogno di me ma, appena la questione saltava fuori, io cercavo e di “sotterrarla”».
C’è perfino un alibi – sorride Daniele – che aiuta a tenere lontano certi pensieri: «Io soffro molto il caldo e quando vedevo un sacerdote che d’estate aveva tutti quei paramenti addosso mi dicevo: io non voglio fare il prete, anche per questo motivo. È una cosa – sorride di nuovo – che mi è venuta in mente di nuovo in questi giorni che comincia a fare caldo…».
I valori del rugby. E quelli del canto. Ci sono anche passioni concrete e intense che riempiono le giornate di Daniele. Una è per lo sport, per il rugby in particolare. Il giovane jesolano è una promessa, gioca già con gente che poi arriverà alla Nazionale. Ed è solo un incidente alla spalla che lo stoppa, almeno ad alti livelli. Ma i valori del rugby restano per la vita: «Non esiste la finzione, che spesso invece c’è nel calcio, per cui uno si butta per terra anche se non è stato toccato. Ed è molto forte il valore del gioco di squadra: non si gioca da soli, ma solo tutti assieme. Poi il bello è il ritrovo del terzo tempo, quando si sta insieme, si mangia e, anche se c’è stata un po’ di baruffa in campo, dopo una pastasciutta resta solo l’amicizia».
E c’è anche la passione del canto lirico. Passione che nasce per caso: «Un altro amico di Jesolo, Giulio Olivo, mi porta una sera a cantare in un coro. La cosa mi piace. Poi mi porta a provare una lezione privata di canto; la maestra dice che assomiglio, come voce, a Placido Domingo». La cosa, ovviamente, per un principiante, è attraente.
E così va avanti: «Sono andato anche dal maestro di Andrea Bocelli. Poi, un giorno, dopo aver fatto quattro concerti in un mese, entro in crisi, perché sento che non è la mia strada, anche se mi piace molto cantare. Ho sempre però pensato che, se il Signore dà un dono, è giusto metterlo a disposizione; ma in modo diverso da come facevo allora. Così ho fatto una pausa di un anno e mezzo, prima di ricominciare a cantare, e nel frattempo si riaffaccia la domanda religiosa».
L’esempio di don Alessandro. Una domanda che è sempre stata alimentata dalla consuetudine con la parrocchia: «La mia vocazione credo sia nata lì. Anche quando, da adolescente, mi è venuta la tentazione di cambiare amicizie e ambiente, non ho mai lasciato. Ricordo una sera che Davide Agostini e Morris Pasian mi invitano in patronato a mangiare con gli animatori; da lì non ho più mollato».
Vita e fascino della parrocchia, appunto: «Io sono cresciuto con i Grest e i campi scuola: ho bellissimi ricordi di queste esperienze, da cui si torna arricchiti sia nel rapporto con gli altri ragazzi che dal punto di vista spirituale. Anche grazie a don Alessandro Panzanato, il cappellano di quegli anni, cui devo molta parte della mia vocazione, ho visto una crescita esponenziale della partecipazione: ricordo il primo capo per le superiori, eravamo in venti. Dopo quattro-cinque anni i campi delle superiori diventano di sessanta persone, quelli delle medie di cento… E ricordo bene che don Alessandro parlava dello stile bello dello stare insieme, del mettersi a disposizione, della gratuità, del servizio…: queste sono le parole che mi hanno sempre attirato e guidato nella vita di parrocchia».
Quel giorno tutti la stessa domanda… E anche in quella verso il sacerdozio. Una prospettiva che si fa sempre più presente, ma serve un piccolo segno perché la miccia si inneschi: «È la seconda domenica di Quaresima del 2013. Quel giorno succede che tante persone, direi una decina, in luoghi diversi e in momenti diversi della giornata, mi fanno tutte la stessa domanda: hai mai pensato di entrare in Seminario? Se è una persona, beh, passi: magari mi ha visto all’altare, mentre faccio il chierichetto… Ma in quella domenica, in situazioni, luoghi e tempi diversi, tutti chiedono la stessa cosa. E io comincio ad avere un po’ d’inquietudine. Allora chiamo don Alessandro, che è stato il mio punto di riferimento in tutti quegli anni, e lui, quando mi risponde al telefono, non mi dice neanche “ciao, come stai?”. Mi fa subito la stessa domanda. Io resto spiazzato e mi metto a piangere; poi parlo con lui e lui dice: “Erano quattro anni che ti aspettavo, ma ti ho sempre lasciato libero che me lo dicessi tu”. Ecco, il tempo giusto era arrivato».
Giorgio Malavasi