«Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 20, Gesù dice: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”. Il Signore, cioè, ama tutti ed è morto per tutti; però ne sceglie alcuni per continuare la sua missione. Il sacerdote, così, agisce nella persona di Cristo. Perciò può dire: “questo è il mio corpo…”, oppure “io ti perdono…”. Quindi non è don Augusto che lo dice, è Gesù. Perciò la bellezza – e questo è da vertigini – è di essere chiamati in maniera forte ad essere un altro Cristo».
Una bellezza vertiginosa: per don Augusto Prinsen sta qui l’essenza del sacerdozio cui si è sentito chiamato: una vocazione che sarà suggellata dall’ordinazione per le mani del Patriarca Francesco, sabato 27 giugno alla Salute.
Tutta colpa di una Fiat Panda… Un percorso che inizia da lontano, quello di Augusto Prinsen: il cognome, originario dell’Olanda, lo lascia intuire. Bisogna pensare alla città di Leiden, nella parte centro-meridionale dei Paesi Bassi. Una città che ha dato i natali al più grande pittore olandese, Rembrandt, ma che è nota anche perché, nei laboratori della sua antica università, si è arrivati ad un passo dallo zero assoluto, quella temperatura iper-glaciale di 273 gradi sotto zero cui un fisico, poi premio Nobel, cent’anni fa quasi arrivò.
Leiden, appunto, è la città di cui è originaria la famiglia paterna di Augusto. Ma è invece colpa di una Fiat Panda se si è arrivati alla storia di oggi. A metà degli anni Ottanta, infatti, la mamma di Augusto, giovane studiosa di diritto fiscale, sceglie proprio l’Olanda e Leiden per proseguire gli studi e lavorare.
Vi si trasferisce dalla natìa Campobasso e, il primo giorno di lavoro in ufficio, la sua Panda fa la dispettosa e non va più. «Così, anche se non voleva – è il racconto di Augusto – accetta un passaggio in auto dalla persona che poi sarebbe diventato mio papà. Tredici mesi dopo si sposano e undici mesi dopo nasco io. Meno male che le automobili ogni tanto si rompono….».
La religione c’entra subito: «Mia mamma dice che si è sentita per la prima volta cattolica quando, appena arrivata in Olanda e ospitata da una gentilissima signora protestante, questa le dice: “tu sei italiana e quindi cattolica, no?”. E mia mamma si rende consapevole di essere arrivata in un Paese in cui i cattolici sono la minoranza, all’incirca il 30% della popolazione, mentre tutti gli altri sono protestanti, più precisamente calvinisti».
L’esempio del nonno. Essere minoranza, per una cattolica italiana, è un’esperienza insolita: «Rafforza – precisa don Augusto – ma la si paga. Lo diceva il mio bisnonno, che veniva da una delle quattro famiglie del paese che non si erano convertite durante la Riforma protestante, e quindi lo sottolineava: essere cattolici si paga. E anche oggi, sebbene il Paese sia molto secolarizzato, un certo pregiudizio anticattolico c’è ancora».
Ma nell’infanzia di Augusto c’è, oltre a quella dei genitori, anche la testimonianza forte del nonno paterno: «Dopo la visita di Giovanni Paolo II in Olanda, aveva messo da parte il suo lavoro e gli ultimi vent’anni di vita li ha dedicati a tempo pieno alla Chiesa, mettendo in piedi una casa editrice, con la quale ha pubblicato le encicliche papali, oltre a volumi e sussidi per sostenere seminaristi e preti. È morto dicendo: “Abbiamo bisogno di buoni sacerdoti”. Insomma: sono cresciuto in una famiglia che ha fatto apostolato attivo».
Quella parola difficile, vocazione, e il pensiero di un bambino. C’è anche, in questa storia olandese, una piccola scintilla di quello che accadrà: «Nel ’95 stavo facendo catechismo in vista della prima comunione e avevo otto anni. Visto che i miei genitori avevano visto me e i miei fratelli un po’ distratti, ci avevano detto che durante le prediche bisognava stare attenti a quel che diceva il sacerdote. Al che io ho obiettato candidamente: sì, va bene, ma ci sono parole difficili. “Beh, se non capisci chiedimi”, dice mio papà. A un certo punto il sacerdote, durante l’omelia della domenica successiva, usa la parola “vocazione”. E io subito: papà, che cos’è la vocazione? E lui: “È quando Dio ti chiama a diventare sacerdote”. E ricordo che dentro di me ho pensato: ah, che bello! Speriamo che mi chiami».
Un episodio, appunto. Un piccolo seme che però, fino all’università resta dormiente. Di mezzo c’è il trasferimento della famiglia – insieme a mamma e papà due sorelle e un fratello più piccoli – in Italia: «È stato papà ad insistere: l’Italia gli piaceva molto; sapeva già un po’ d’italiano prima di conoscere mia madre. E il giorno del loro primo incontro la musica che ascoltarono era di De Gregori».
«Non ho detto al Signore di sì, gli ho chiesto il coraggio di dire di sì». A 8 anni Augusto arriva a Varese e fa la scuola internazionale; poi tanta chitarra, nuoto e tennis. «Avevo già fatto in Olanda sia la Prima Comunione che la Cresima per cui, a parte la domenica a Messa – sono chierichetto dal ’95 – non ho mai frequentato la parrocchia, mai fatto vita d’oratorio».
Semmai, si fa chiara l’inclinazione per le cose tecniche: Augusto si iscrive al Politecnico di Milano, ingegneria meccanica, e procede spedito. «Ma al secondo anno di università, complice forse il fatto che un mio amico ingegnere meccanico era diventato sacerdote e un altro amico era entrato in Seminario, è uscita una domanda sulla mia vita. Ho ben presente che a un certo momento ho avuto l’intima consapevolezza che il Signore mi stava chiedendo di fare la stessa cosa. E che questo non venisse da me lo dimostra il fatto che ho avuto un sacco di paura. Dire di no non voglio – pensavo – ma per dire di sì non ho il coraggio, cosa faccio? Ho fatto la cosa più intelligente della mia vita: ho chiesto al Signore la chiarezza, per capire se era davvero la Sua volontà. Non gli ho detto di sì, gli ho chiesto il coraggio di dire di sì. Ma quando lasci la porta socchiusa allo Spirito Santo, Lui la spalanca».
E la chiarezza è venuta anche da un’altra scelta: «La confessione, almeno una volta ogni due settimane, perché la confessione pulisce il cuore e permette di vedere meglio la volontà di Dio. Il Signore non pretende che lo seguiamo con la forza dei nostri muscoli: li dà Lui i muscoli, ma vuole che glieli chiediamo. Il segreto del Signore è capire che senza di Lui noi non possiamo fare niente e lasciarsi amare da Lui. Mi viene da ridere quando mi dicono: “che bravi ragazzi che siete!”, guardando a noi seminaristi. In realtà è il Signore che fa tutto e poi ti fa fare bella figura. Ma è Lui che fa, non c’è un merito nostro».
Studi completati e un’esperienza di lavoro, per una scelta libera. Così, gli ultimi anni di studi universitari Augusto li fa con l’idea fissa di entrare in Seminario, «ma anche con la volontà di laurearmi. Ho fatto anche l’esame di Stato, perché la cosa cui tenevo molto era che la mia non fosse una fuga. Ho poi fatto anche un Erasmus e ho lavorato in due aziende, una delle quali a Monaco di Baviera. E ringrazio il Signore di aver finito gli studi e di essermi licenziato dal luogo di lavoro per entrare in Seminario: è stato un modo per dire a me stesso che non è che non avessi alternative o che mi trovassi “incastrato”. Questo mi ha dato la libertà di dire convintamente “sì” al Signore».
Ma che c’entra il Seminario di Venezia? C’entra per via dell’attuale Patriarca: «Allora era vescovo a La Spezia e io avevo amici a La Spezia, che di lui mi avevano parlato molto bene. Proprio in quei mesi era giunto a Venezia, come Patriarca, e io ho cominciato a informarmi, fino a incontrarlo».
Dopodiché quasi un anno di discernimento e l’ingresso alla Salute: «Sono molto grato al Signore del Seminario che ho avuto e dei suoi superiori. Certo, all’inizio sono venuto da solo: anche se il posto è bellissimo, io sono venuto via lasciando famiglia e amici, e questo mi ha mostrato in maniera forte che ero qui solo per il Signore. Venezia è una splendida città, forse la più bella del mondo, ma non è per questo che sono rimasto qui».
Giorgio Malavasi