«La solitudine della pandemia noi sappiamo da tempo cos’è. L’abbiamo già provata e continueremo a provarla. Un attimo prima sei felice, quello dopo sei disperato. Non puoi più andare al cinema, a teatro, a cena fuori, in vacanza. Ecco l’isolamento». Liliana Boranga ha già vissuto tutto. Le abitudini stravolte, lo sguardo della gente quando esce di casa, il reinventarsi la vita. Il confinamento dura da quasi vent’anni. È la solitudine della malattia di chi le è più caro. Una disabilità grave che le risucchia la figlia d’improvviso.
L’arrivo improvviso della “bestia”. 19 marzo 1992. Liliana e Francesca rientrano da un viaggio «indimenticabile» a Parigi. Ma quella figlia adolescente nel giro di un secondo «cambia lo sguardo, cambia l’espressione. È solo paura. La sua e la tua: la nostra. Le parole sono diverse, gli occhi straniti. Ti fanno paura. Vedono cose che tu non vedi, vedono persone che non dovrebbero esserci nella tua casa. Non sai cosa stia succedendo e allora ti disperi, è la disperazione, la prima sensazione che provi e che proverai a lungo. L’incapacità di creare sollievo, di dare risposte, l’impotenza di non poter, con un gesto, allontanare quel dolore che cominci a vedere in quegli occhi neri. Troppo dolore per un’adolescente. Vuoi che sia il tuo dolore. E da quel momento sarà sempre e solo il nostro. Ed è la “bestia”».
La giornalista veneziana l’ha descritta tutta, o quasi, nella sua autobiografia. Parte così. E non usa mezzi termini, titolo compreso: «Io, tua madre contro la bestia» (Booksprint edizioni, 14,90 euro).
Ogni parola penetra e non chiede il permesso. «Me lo dicono tutti quelli che lo leggono: “Mi hai fatto provare un dolore che non immaginavo”. E questo mi ha dato sollievo, perché io questo dolore te lo faccio vedere e tu non ti sei voltato dall’altra parte. Un dolore riconosciuto come un’esperienza che può capitare a chiunque. Un po’ come è successo con il Coronavirus, stravolgendo agi, benefici, felicità, abitudini».
Ed è la stessa solitudine dell’anziano, del divorziato, della donna sola e di molti altri, spiega Liliana.
Il libro l’ha scritto gli scorsi mesi, quando la figlia è stata ricoverata per l’ennesima crisi, «e sentivo che dovevo comunicare qualcosa. L’ho scritto d’un fiato in cinque mesi».
Con l’arrivo del Covid, da due mesi vede Francesca solo attraverso i cancelli della struttura che la sta ospitando. Liliana ha avuto il tempo di osservare la stessa solitudine nelle case degli altri, quella che lei ha provato spesso. «Come la disperazione dell’anziano che non ha il coraggio di uscire, di fare due passi».
Le reazioni degli altri. Ha avuto anche il tempo di ripercorrere a ritroso tutto il travaglio di Francesca. «Fino ai 17 anni non aveva nulla. Andava a scuola, in parrocchia, giocava a pallacanestro, suonava il pianoforte. Ma dall’oggi al domani la vita è cambiata per entrambe. Una pizza in trattoria, il mare, un giro in bici. Non ci puoi più andare. E il mondo che ti circonda spesso non è solidale».
Liliana si è sentita chiedere conto dei comportamenti della figlia, del suo modo di camminare, di comunicare con le persone. «Ti senti criminalizzato come fosse colpa tua».
Una volta, al pronto soccorso, Francesca si avvicina in modo innocente a una persona anziana «(perché lei ama gli anziani) e mi sono sentita dire, in dialetto, che avrei dovuto legarla. E non ci ho visto più».
C’è anche chi per strada nota alcuni spasmi di Francesca e dice a Liliana «Ma lei non fa niente per sua figlia?», oppure «Vuole che le dia dei numeri di qualche specialista?». «Commenti di perfetti sconosciuti. La prima cosa che verrebbe da fare è mandarli a quel paese, ma poi mi rendo conto che non è colpa loro».
«Grazie alla fede mi si è aperto un mondo». E in questa comprensione forse la Fede c’entra più di qualcosa. Non è cieca, «ma discussa. Non l’ho mai persa. Io ci parlo. Chiedo perché». Quando frequentava le scuole delle Canossiane «c’era una direttrice con uno sguardo angelico. Lì piano piano ho cominciato a leggere testi di religione, di fede, di storia. Mi si è aperto un mondo».
Un mondo che non l’ha abbandonata nella fase più delicata della sua vita, quella della malattia di sua figlia. «Alla fine sono arrivata a dire: se Tu hai scelto noi ci sarà un motivo. Ha capito qual è il cavallo vincente – ride Liliana Boranga -. Anche se noi, forse, anziché purosangue avremmo preferito essere ronzini o asini».
Giulia Busetto