Uno studio che metta a nudo perché quest’infezione non è uguale per tutti. Cioè per quale ragione in una stessa famiglia ci siano persone malate e persone che non si sono mai ammalate, pur convivendo; oppure persone che sono guarite subito e altre che sono rimaste positive per tantissimo tempo; o infine perché qualcuno reagisca bene alle terapia e altri no, perché ci siano contagiati senza sintomi e altri con sintomi gravissimi.
Insomma, si tratta di mettere a nudo questo virus tragicamente burlone, che si comporta in modo nuovo rispetto ai suoi predecessori. È l’obiettivo dell’indagine che da sabato 25 o domenica 26 aprile prenderà il via a Vò.
Ancora a Vò, dove è iniziato tutto, dove c’è stato il primo caso veneto di Coronavirus, e dove si è creata una condizione unica: in un contesto piccolo (3300 abitanti) si sono già fatti due campionamenti a tappeto con il tampone; inoltre si sono indagate tutte le relazioni fra persone, per ricostruire i contatti intercorsi e i percorsi fatti dal virus per trasmettersi da una persona all’altra.
A condurre lo studio anche stavolta, il prof. Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università di Padova: «Con i primi due campionamenti abbiamo dimostrato che è possibile eliminare la trasmissione dell’infezione. Ed è un modello per il futuro, perché se ci sarà un nuovo focolaio sappiamo esattamente cosa fare».
Adesso però l’obiettivo è ancora più ambizioso: «Il nuovo studio vuole capire, da una parte, cosa succede quando il virus si trasmette da un individuo all’altro. Vogliamo cioè sequenziare il genoma di ogni individuo che è stato positivo e di tutte le sue catene di contagio. Così capiremo se lascia traccia, mutando da una persona all’altra, e potremo fare associazioni utili per intervenire nel decorso della malattia».
Non solo: «Vogliamo poi studiare la genetica di tutti gli abitanti di Vò: vuol dire fare mappatura genetica dei residenti e, in alcuni casi, il completo sequenziamento del genoma per capire se ci sono associazioni tra suscettibilità o resistenza alla malaria, e se ci sono certi marcatori genetici o varianti di geni. Questo ci permetterebbe di identificare la presenza di persone più resistenti o più suscettibili alla malattia. Il che significa che se scopriamo che una persona può sviluppare una forma grave oppure leggera la si può avviare a percorsi di cura diversi».
In un mese circa si potrà avere la risposta anticorpale degli abitanti di Vò; il tracciamento virale in qualche settimana in più, mentre per l’analisi genetica, che conclude lo studio, serviranno circa sei mesi.
E lo studio non ha conseguenze di poco conto anche sulla scelta se investire poi nelle terapie o nel vaccino: «Infatti – precisa il prof. Crisanti – perché permetterà di stabilire se c’è relazione fra anticorpi e guarigione, ovvero il mistero di persone che dopo 6-8 settimane hanno tanti anticorpi ma sono ancora positive. E se vedo una persona che dopo tante settimane ha gli anticorpi ma resta positivo, qualche domanda sulla efficacia di un vaccino me la faccio».
Giorgio Malavasi