Il 2019, nel Comune di Venezia, si è chiuso con un record: il numero più basso di nuovi nati, che si sono fermati a quota 1.548. Un numero basso come non si era mai visto, dal Duemila ad oggi. E sideralmente lontano dai numeri del secolo scorso, tanto che sembra grottesco citare l’anno 1901, quando a Venezia nacquero 27 bambini ogni mille abitanti. Se così accadesse oggi, l’anno si sarebbe chiuso con 7mila nuove nascite.
L’anno è terminato anche con il minimo dei residenti nella città storica e con il massimo di stranieri regolarmente iscritti all’anagrafe veneziana. E con un sestiere, quello di San Marco, dove tre famiglie su cinque sono formate da una sola persona.
È una metamorfosi senza requie e anche piuttosto veloce quella cui stiamo assistendo. Ed è evidente che sempre più il tempo stringe se si vuole davvero provare a modificare le tendenze in corso.
Pensando alla città d’acqua, vien da pensare ci sia una sola strada – probabilmente irrealistica – per invertire la rotta e cercare di conservare Venezia come città abitata da residenti e famiglie: sottrarla, almeno in parte, all’economia di mercato.
L’economia di mercato, dal dopoguerra in poi, ha prodotto due cose: da un lato una estrema semplificazione di funzioni della città, per cui si è giunti alla monocultura turistica; dall’altro lo spopolamento urbano, sia per i costi da sopportare (per cui per decenni si è scelto di andare ad abitare in terraferma) sia perché è dal turismo che provengono le migliori fonti di guadagno (per cui è meglio affittare o vendere la casa a turisti).
Ogni amministrazione comunale che si è succeduta negli ultimi settant’anni si è impegnata – spesso con ottime intenzioni – per contenere lo spopolamento e l’economia turistica debordante, ma con risultati modesti e senza mai invertire il trend.
Il che fa pensare che solo uscendo dai binari consueti – e dai sistemi istituzionali e normativi ordinari – si potrà ottenere un risultato diverso.
In questo senso la proposta avanzata dal Patriarca dopo le acque alte eccezionali va in una direzione ben precisa: si tratta di istituire uno statuto speciale per Venezia, che non serva tanto a portare soldi o privilegi, ma ne sottolinei l’unicità, la non ordinarietà.
Se vale ancora la pena di difendere la città come civitas e non solo come urbs, se vale ancora la pena di avere dei residenti, delle famiglie residenti e dei bambini e non solo degli edifici splendidi da mostrare al mondo, bisognerà pensare seriamente a una misura straordinaria.
Allora, tanto per stare alla cronaca, una prima applicazione è a portata di mano. La Regione ha annunciato in questi giorni di voler vendere all’asta 32 appartamenti, 31 dei quali proprio a Venezia.
Il fine è condivisibile: finanziare, con quei ricavi (si stima quasi 9 milioni), il potenziamento di strutture e sedi della sanità veneziana.
Ma l’effetto collaterale sarà ancora una volta il sottrarre case ai residenti, perché ben difficilmente saranno dei veneziani ad acquistarle. E se si iniziasse stavolta a introdurre la misura extra-ordinaria per cui è un altro ente pubblico (il Comune, lo Stato, magari tramite una fondazione) a comprare? Per poi affittare ad abitanti stabili?
Giorgio Malavasi