Lo scorso sabato ha chiuso i battenti la sua attività, dopo aver risistemato le suole per migliaia di passi, accudito il cuoio di centinaia di clienti, lavorato per ben… settantacinque anni. «Settantacinque e cinque mesi, in verità». Ottone Pelosin, calzolaio di Favaro, ha detto stop e chiude la bottega, all’età di 87 anni.
Non una vacanza, non un giorno di malattia. «Sono in bottega da quanto andavo in quarta elementare, chiamato al lavoro perché mio fratello era dovuto andare in guerra. Da allora la mia famiglia, dall’800 una stirpe di muratori, ha cominciato ad aggiustare le scarpe». Ma anche a crearle, a mano e su misura, come si faceva un tempo. Alle spalle, anche ora che il negozio ha chiuso, Ottone ha circa 300 paia di modelli in legno che ha conservato come un tesoro. Come i suoi macchinari: «Che potrebbero anche non servirmi, adesso, in casa. A mano, sono ancora capace di cucirle le scarpe».
Con cuoio di qualità, pelle di prim’ordine magari… mica come le scarpe che circolano adesso. Non si vede, entrando in bottega, la lista di marchi che Ottone da tempo non accetta più di riparare e che tiene in evidenza sul retro del suo bancone: «Per tenermi a mente quali scarpe mi fanno fare brutta figura: queste aziende, che una volta erano di grande qualità, oggi hanno venduto ad altri mantenendo solo il nome. Io le aggiusto, quelle scarpe, ma i tacchi si staccano, la pelle si rovina. E ci son nomi grossi sa…». Alcuni sono il fior fiore della produzione italiana, con prezzi tutti sopra i 100 euro a paia.
L’esperienza, la manualità, i vecchi attrezzi storici di Ottone da oggi non sono più a disposizione dei clienti. Tanti ne sono passati negli ultimi 23 anni a Favaro, altri ancora in via Vallon nella bottega precedente, amici e frequentati del calzolaio si sono presentati sabato 30 novembre a salutare l’ultima giornata di lavoro di Ottone. Ma la sua passione, quella si dice non andrà perduta. «Dei miei vecchi modelli farò un museo. E la bottega… quasi quasi me la tengo». Non si sa mai, che per un paio di buone scarpe, ci sia ancora tempo.
Maria Paola Scaramuzza