In Brasile si sta consumando una tragedia che minaccia l’equilibrio climatico e biologico del pianeta Terra, e quindi il futuro dell’umanità. È la distruzione della foresta Amazzonica, il cui ritmo è aumentato in modo preoccupante
In un dibattito televisivo sulla questione, un rappresentante dei fazendeiros è uscito con questa considerazione: che senso ha voler preservare l’ambiente naturale per gli uccellini e rinunciare, per questo, alla creazione di nuovi spazi per l’agricoltura e la produzione di alimenti per l’umanità?
Uno della parte opposta nel dibattito ha risposto: che senso ha creare nuovi spazi per l’agricoltura e la produzione di alimenti se, distruggendo l’ambiente naturale, si distrugge la possibilità di vita non solo per gli uccellini, ma per la stessa umanità? È la grande questione che riguarda non solo il Brasile, ma il mondo intero.
Dall’aereo si vedono crescere le ferite della foresta. Sono italiano, veneziano di Scaltenigo, e mi trovo in Brasile da più di trent’anni. Questo tempo è stato sufficiente per constatare da vicino il disastro della progressiva distruzione della foresta Amazzonica. Ricordo che negli anni ’80, in occasione di una predicazione a Cruzeiro do Sul, nello Stato dell’Acre, ai confini con il Perù, ho potuto vedere dall’aereo l’immenso mare verde della foresta amazzonica ancora intatta. Ho fatto lo stesso viaggio una quindicina di anni dopo e già si vedevano dappertutto i grandi spazi rosso e marrone creati dalla sega elettrica, che ritagliavano il mare verde come ferite di sangue raggrumato, che non si sarebbero più rimarginate.
È importante ricordare che quello che sta succedendo in Amazzonia è l’ultimo capitolo del processo di distruzione delle foreste native del Brasile, che è cominciato subito dopo la sua scoperta da parte degli Europei, agli inizi del XVI secolo. Il primo nome dato a questa terra immensa è stato di “Terra de Santa Cruz” (terra di Santa Croce). Ma subito dopo il il nome è stato cambiato con: “Terra do pau brazil” (terra del legno di brace). Con questo nome si indicava il primo prodotto nativo di cui gli Europei si sono impadroniti in questa terra: un legno rosso, molto resistente, che serviva per tingere i vestiti e per altri usi. Da lì è venuto il nome “Brasile”. Erano foreste immense che coprivano soprattutto le regioni del Nordest. Sono state tagliate in poco più di un secolo. Il risultato è stato il processo di desertificazione che affligge oggi tutta la regione del Nordest, con la mancanza di piogge, l’impossibilità di coltivare la terra, la miseria e la fuga dei contadini verso le immense favelas delle grandi città, dove si vive in condizioni disumane.
Mato Grosso, la foresta grande che non c’è più. Quando Cabral ha scoperto il Brasile, tutto il litorale, per migliaia di chilometri, era ricoperto dalla grande foresta Atlantica. Anche questa è stata distrutta dai colonizzatori portoghesi. Ne è rimasto solo l’8%, e anche questo 8% vive minacciato di distruzione, per dare spazio al “progresso”.
Fino a qualche decennio fa era rimasta ancora intatta la grande foresta dell’Amazzonia, percorsa dal Rio delle Amazzoni, il fiume più lungo e largo del mondo. Questa foresta è sempre stata uno dei polmoni più importanti del pianeta Terra, e una riserva infinita di bio-diversità. In essa vivono molte tribù di Indios nativi, che da sempre occupavano tutte le regioni del Brasile. L’avanzata della “civiltà” dei bianchi li aveva costretti ad emigrare, rifugiandosi nelle foreste della Amazzonia.
Nel centro del Brasile esiste il grande territorio di due Stati che portano il nome significativo di ’Mato Grosso’, del Sud e del Nord. Mato Grosso significa: foresta grande. Non ne è rimasto più nulla. Il processo di produzione agricola industrializzata, chiamato “agro negócio”, ha determinato la distruzione di tutta la foresta esistente, per dare spazio alle immense piantagioni di soia e ai pascoli di bestiame: prodotti destinati all’esportazione verso i paesi del “primo mondo”.
In molte di queste fazendas si usa l’aereo per dislocarsi da una parte all’altra della proprietà. Gli Indios e i piccoli produttori rurali, detti “posseiros”, che vivevano in queste terre, sono stati espulsi. Gli Indios verso le foreste nell’Amazzonia, i posseiros verso le favelas (baraccopoli) delle grandi città. Negli anni ’40 la popolazione del Brasile che viveva nei campi era l’80% del totale.
Ora è il contrario: l’80% vive in città. Possiamo quindi vedere che quello che succede ora in Amazzonia non è novità. È l’ultimo capitolo di una lunga storia di distruzione insensata e criminale.
La coscienza ecologica è cresciuta. Ma perché ora si parla tanto dell’Amazzonia e della sua rapida distruzione? Cosa sta succedendo realmente? È il processo di distruzione degli alberi per dare spazio all’agro negócio: allevamento di bestiame e coltivazioni intensive. A onore del vero bisogna dire che il fatto non è solo di oggi e non è responsabilità esclusiva del governo Bolsonaro.
L’inizio del disastro risale agli anni Cinquanta del secolo scorso. Ma sotto il governo Bolsonaro la deforestazione, con il taglio degli alberi e l’incendio delle aree “liberate’ per dare spazio ai pascoli del bestiame e alle coltivazioni agricole si è accelerato.
I dati offerti da Ong internazionali e quelli ufficiali dello stesso governo parlano chiaro: tra agosto del 2018 e lo stesso periodo di quest’anno il processo di deforestazione è aumentato dell’82%. Si registrano attualmente 67mila incendi in tutta la regione.
Certamente il progresso della coscienza ecologica nel mondo sta dando i suoi frutti: oggi si ha più coscienza che in passato della necessità di preservare la natura per garantire una vita più sana e la vita stessa per tutta l’umanità: di oggi e delle generazioni future.
Le iniziative per preservare l’ambiente si moltiplicano in tutto il mondo. Anche Papa Francesco, con l’Enciclica “Laudato si’”, ha lanciato un autorevole appello in questo senso a tutta l’umanità.
Bolsonaro, le politiche per i grandi proprietari terrieri. In Brasile i governi precedenti a Bolsonaro avevano creato strutture di controllo contro la distruzione delle foreste, con una legislazione adeguata per limitare tale pratica.
La causa dell’aumento accelerato della distruzione delle foreste che si registra attualmente in Brasile è, anzitutto, di carattere politico. Il governo Bolsonaro si è costituito e si mantiene grazie all’appoggio potente della “bancada ruralista”: è il gruppo di deputati e senatori che rappresentano e difendono gli interessi dei fazendeiros latifondisti, proprietari delle immense regioni “rubate” alla foresta per coltivare la soia e allevare il bestiame.
Bolsonaro ha vinto le elezioni anche grazie ad un “pacchetto” di promesse elettorali a favore di questo settore potente della società brasiliana. Ora sta concretizzando le sue promesse con una serie di iniziative a favore dell’“agronegocio”. Sono esenzioni fiscali, diminuzione dei controlli e delle pene contro la distruzione della foresta e l’appropriazione illegale delle terre, diminuzione dei fondi destinati alle attività degli enti statali incaricati di controllare e punire, dimissioni di funzionari troppo “zelanti”, iniziative di esplorazione del petrolio in riserve ecologiche protette, invasioni predatorie dei territori delle “riserve indigene”, revisione dei criteri per definire e impedire la pratica del lavoro schiavo, che è un fatto normale nelle grandi fazende, ostacoli alle azioni dell’Ibama (l’organismo del governo per la difesa e la promozione dell’ambiente naturale del Brasile) contro le imprese che tagliano gli alberi e vendono il legname, soprattutto a nostri paesi del “primo mondo”.
Il conflitto con Macron, il fastidio per il mondo. Anche la reazione internazionale contro questo fatto si sta facendo sentire: tagli dei contributi economici che vari paesi, come Germania e Norvegia, garantivano al Brasile per sostenere la politica di conservazione ambientale, chiusura dei mercati per i prodotti brasiliani, proteste dell’Onu e manifestazioni popolari di piazza, e altro.
In questi ultimi giorni il presidente Bolsonaro ha dichiarato pubblicamente di essere rimasto “sorpreso” per l’aumento improvviso degli incendi, e con un decreto presidenziale ha proibito di accendere fuochi per due mesi in tutto il territorio brasiliano. Egli è entrato in conflitto con il presidente francese Macron, che lo ha accusato di aver mentito sulla reale situazione dell’Amazzonia. Ha dichiarato che accetterà l’aiuto al Brasile proposto dal gruppo del G7 solo se il presidente francese gli chiederà scusa. Ha ridicolizzato le “pretese” della Norvegia, accusandola di essere uno dei paesi dove si pratica la caccia alle balene. Ha dichiarato a più riprese che l’Amazzonia è del Brasile e che nessuno può metterci il naso.
Cosa può fare il Sinodo dei vescovi. La grande polemica in corso coincide, e non per caso, con la celebrazione del Sinodo sull’Amazzonia, che è in fase di preparazione e sarà celebrato nel prossimo ottobre a Roma. Magari sarebbe stato più significativo celebrarlo all’ombra degli alberi centenari della grande foresta…
Nell’Instrumentum laboris del Sinodo troviamo la definizione chiara delle tre conversioni che sono necessarie oggi per la Chiesa dell’Amazzonia: la conversione pastorale, la conversione alla sinodalità della Chiesa e la conversione all’ecologia. Questa terza parte ha un ampio spazio nel documento ed è presentata come una esigenza della vera evangelizzazione. La Chiesa deve ascoltare e farsi portavoce del grido della terra e dei poveri di questa regione. Come afferma papa Francesco nella “Laudato si’” (n. 66) oggi il peccato si manifesta, anche in questa regione, con tutta la sua forza di distruzione nelle diverse forme di violenza e oppressione, nella marginalizzazione dei più fragili, come gli Indios ed i posseiros, nella distruzione della natura. Definisce il territorio amazzonico come un “luogo teologico”, dove Dio parla all’umanità per mezzo delle sue opere meravigliose. Invita a prendere coscienza che abusare della natura è abusare dell’essere umano.
Si prevede quindi che il Sinodo farà una denuncia autorevole dei mali che affliggono l’Amazzonia.
È proprio il caso di dire: non di solo pane vive l’uomo, ma anche di ossigeno, di acqua pura, di verde e di bellezza: della bellezza che Dio ha profuso con tanta generosità nella natura, nelle sue creature. È necessaria e urgente quella che Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si’” definisce come “conversione ecologica” e come processo di “riconciliazione” con la natura creata da Dio (nn. 216 e 218). L’Amazzonia è solo una parte del problema. Questo è un problema e una responsabilità di tutta l’umanità.
frei Mariano S. Foralosso OP