«È bello essere oggi qui nella chiesa madre della Diocesi con lo sguardo rivolto al Signore Gesù, a Lui che non si lascia condizionare da mode, derive politiche, lobby finanziarie e culturali e che nel Suo Vangelo ci dice cosa è la libertà, come si fa ad essere liberi».
L’omelia del Patriarca, nella Messa per l’ordinazione sacerdotale di don Giovanni Carnio, don Giampiero Giromella, don Riccardo Redigolo e don Marco Zane, si concentra sulla struttura fondamentale, cioè sul dna dell’essere preti di Cristo, aldilà di ogni pensiero attualmente dominante. «Un prete novello – afferma mons. Moraglia dinanzi ai quattro diaconi che di lì a poco ordinerà presbiteri – dice libertà, perché oggi fare il prete significa andare contro corrente, uscire dal modo comune di pensare che condiziona più di quello che sembra; ci illudiamo d’essere liberi e di pensare con la nostra testa, mentre spesso scegliamo a partire da quello che altri hanno deciso e ci propongono/impongono, tralasciando prospettive più vere, più giuste, più etiche, più dignitose per l’uomo e per la nostra società. Della vostra libertà, vi ringraziamo; siete per la comunità motivo di gioia che ripaga delle inevitabili fatiche di chi è convinto che il “sì, sì; no, no” del Vangelo è sempre attuale e non fa cadere in una fede mondanizzata».
Perciò divenire ed essere sacerdoti significa consentire a tutti di «toccare con mano come il Signore continui a operare e si renda presente dove vi sono persone libere che non seguono il pensiero dominante, il politicamente corretto; essere prete oggi non è più, come talvolta per il passato è potuto anche accadere, ossia inseguire una elevazione sociale e percorrere un cammino di autonomia personale. Il prete non è questo. Essere prete vuol dire fare una scelta di vita che oggi pone in situazione di minoranza; per questo la vita del prete, ai più, risulta incomprensibile. E viverla nella gioia del dono significa, allora, testimoniare la bontà del Vangelo ed evangelizzando anche con la vita».
Una vocazione e una condizione, quindi, che vanno ben oltre «l’onnipresenza del “politicamente corretto” non solo a partire da certa informazione (i media), ma anche dallo stile dei nostri vicini di casa, delle famiglie che appartengono alle nostre comunità, di chi si dice cristiano e poi ragiona come il mondo, di tanti che credono di essere originali solo perché vestono alla moda o citano l’ultimo libro uscito in libreria o vincitore dell’ultimo concorso. Diventare preti oggi – rimarca mons. Moraglia – chiede di non lasciarsi inquadrare dal “politicamente corretto”; il prete deve essere testimone di libertà, perché oggi fare il prete non è umanamente e socialmente vantaggioso; e Vangelo vuol dire libertà!».
Ai quattro nuovi sacerdoti il Patriarca ricorda che «oggi, nella Chiesa (la sposa di Cristo), non vi è assegnato un compito; no, oggi ricevete una conformazione specifica a Cristo, buon pastore, che vi abilita a servire gratuitamente tutti, senza nulla pretendere, senza preferire alcuni ad altri».
E chiarisce i contorni e i pericoli di un’interpretazione fraintesa del sacerdozio: «Il sacramento dell’ordine va vissuto con umiltà, semplicità, consapevoli che si è ricevuto per pura grazia e non per propri meriti. Il clericalismo, come ricorda spesso papa Francesco, ha molte radici; una è quella della falsa umiltà, per cui il clericalismo si mantiene vivo sminuendo l’importanza del sacramento dell’ordine ed accendendo i riflettori sulla propria persona; allora ci sono i preti più preti, i preti insostituibili, i preti carismatici. Certo, non tutti i preti sono uguali e non tutti hanno gli stessi talenti, ma il rischio è cadere nel personalismo, ossia l’io che prende il sopravvento sul ministero ordinato. Carissimi, l’autostima è necessaria, invece, la presunzione è peccato; il confine è sottilissimo».
Prima di volgere al rito dell’ordinazione, il Patriarca Francesco richiama il senso e il valore della Parola da poco proclamata: «Cari novelli preti, portate viva la memoria del Vangelo che avete appena ascoltato – Matteo (6,24-34) -; è il Vangelo della vostra ordinazione; sia la bussola a cui guardare quando le motivazioni umane vengono meno. La bussola, lo sappiamo, indica la direzione certa ed è utile soprattutto quando si è smarrita la strada. Di tale pagina rimarco una sorta di filo rosso, seguendo il quale si capisce che il discepolo non è tanto un uomo chiamato a fare, quanto piuttosto un uomo chiamato ad essere; sì, la questione fondamentale non è fare ma essere.
Il prete non può esaurirsi nel fare; l’attivismo finisce per schiacciarlo e portarlo a malumori e recriminazioni. Il prete, al contrario, deve fondarsi sulla roccia della Parola di Dio; il vangelo oggi ci indica questa strada: appoggiarsi a Dio contando più sulla Provvidenza e meno sulle forze e i programmi umani. Così o il prete è radicato nel Signore o, di volta in volta, sarà uomo di cultura, teologo, giornalista, psicologo, assistente sociale; i santi preti che hanno saputo dire molto in questi ambiti, sono stati, prima di tutto, sacerdoti poi si occupavano anche di richieste particolari».
Un esempio è don Giovanni Bosco, «che, in quanto prete, si misurò con la questione sociale, legata alla prima industrializzazione della città di Torino, quando migliaia di adolescenti, spinti dalla fame, venivano a cercarvi lavoro. Don Bosco, però, non fu mai innanzitutto un assistente sociale, un pedagogo, uno psicologo che, ogni tanto, celebrava messa e confessava; al contrario fu sempre prete e lo fu in ogni circostanza della vita. Se si dovette occupare di pedagogia, psicologia, catechesi e di diritti di lavoro, lo fece a modo di supplenza; colpiva vedere un prete, arrampicato su impalcature di un edificio, discutere con imprenditori senza scrupoli, per strappare contratti dignitosi per i suoi ragazzi; tutto questo era chiesto a don Bosco dall’esercizio fedele del ministero sacerdotale. Possiamo dire – conclude il Patriarca – che più la città è secolarizzata, più necessitano ministri che lascino compenetrare, al meglio, la loro umanità da parte della grazia di Dio».